RENZO FRANCABANDERA | Giambellino, periferia di Milano. Se c’è un posto a Milano dove è davvero passata la storia della società italiana e non solo, questo è il quartiere Giambellino. Certo “al Giambella non ci sono gaggi”, ossia i nerd metropolitani, milanesissimi nerd; ma se si vuole ascoltare il brulichio dell’oggi, bisogna andare in questa «bolgia di quartiere», come lo aveva descritto Luciano Bianciardi in La vita agra, dove nel tempo, grazie alla sua incredibile stratificazione sociale e urbanistica, nonché alla sua storia, chi ha davvero voluto, ha potuto trovare tutto quello che serviva per capire l’Italia e le sue trasformazioni.
Dalla sua nascita, avvenuta intorno alle cascine della periferia milanese a inizio Novecento, passando per l’espansione urbanistica nell’era delle fabbriche, con il ritorno degli emigranti italiani dalla Francia tradita dalla alleanza di Mussolini con la Germania, fino ai moti della Resistenza: Giambellino con le sue storie ha raccontato la Storia.
Qui le collaborazioniste del Fascismo furono rasate per vendetta in piazza Tirana (le ciocche di capelli sono tornate alla luce con i lavori per il tram); e poi il dopoguerra dal sapore di Rocco e i suoi fratelli, la piccola malavita, i gangster meneghini e le bische che fiorivano sotto l’egida di Francis Turatello. Riascoltate se vi va il personaggio di Cerutti Gino, di Giorgio Gaber, che gli amici al bar del Giambellino chiamavano ‘Drago’.
Ma Giambellino è stato anche un laboratorio politico-culturale con le sue contraddizioni: dagli anni Sessanta in poi, dapprima con gruppo Luglio ‘60, che per primo fece una scissione maoista all’interno del Pci, venendo per questo espulso, e poi con le varie realtà cattoliche e l’esperienza del centro culturale Crud (Centro Rionale di Unità Democratica), alla cui inaugurazione presenziarono addirittura Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Qui la storia si è sempre cementata con la cultura, il linguaggio, la vera contemporaneità. Con la scuola sperimentale Rinascita, al cui interno si trovava l’Istituto pedagogico della Resistenza, fino alle prime riunioni delle Brigate Rosse tra la famiglia Morlacchi, Renato Curcio e Mara Cagol, che avvenivano alla trattoria Bersagliera (sempre in piazza Tirana), oppure alla piccola biblioteca di via Odazio, Giambellino precorreva la storia, quello che l’Italia avrebbe conosciuto di lì ad alcuni anni.
Ma dopo la fine della rivolta degli anni Settanta, con la crisi industriale, Via Odazio diventò la più grande piazza di spaccio d’Europa, rifornita dalle famiglie mafiose di Trezzano sul Naviglio e controllata dalla malavita vicina ai neofascisti. Qui le telecamere inquadreranno il cittadino residente Silvio Berlusconi votare nella scuola di via Scrosati, a pochi metri da via Odazio, mentre sempre negli anni Ottanta e Novanta di fu una vera e propria ecatombe, fra gioventù intossicata dalla droga, il quartiere coperto di siringhe, una percentuale altissima di giovani sieropositivi, e l’immigrazione che faceva convergere in questo magma esplosivo di volta in volta gli altri, i barbari, “i terroni, gli extracomunitari, gli zingari”, e anticipava di vent’ anni le dinamiche conflittuali fra razzismo e solidarietà, con il paradosso della vecchia immigrazione diventata non di rado la pianta della nuova intolleranza.
Quasi un decennio fa Immaginariesplorazioni, un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee, condusse qui uno studio durato più di un anno da cui scaturirono un film, Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), e un libro, Nella tana del Drago, anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X), che raccoglievano in una serie di testimonianze lo spaccato spazio-temporale delle varie realtà di questo luogo unico, oggetto in questi ultimi anni di un processo di trasformazione urbana più generale che riguarda tutta la zona, con il quartiere di case popolari situato accanto allo scalo ferroviario San Cristoforo, a nord dell’area del Vodafone Village e a sud della zona di via Savona, attraversato dai lavori di costruzione della linea 4 della Metropolitana, cui guardavano poco prima della rivoluzione pandemica con interesse speculativo anche gli investitori immobiliari. A un convegno organizzato a maggio 2019 da Scenari Immobiliari, Sigest Real Estate dichiarava: «2020-2030. La domanda residenziale non può trovare risposta nella parte più centrale della città. La sfida è realizzare un prodotto “top” al di fuori della 90-91. Gli interventi extra Circonvallazione dovranno cercare nuove identità».
Sul paradosso delle nuove identità, di chi le cerca e di come pretende di “costruirle”, a Giambellino è nato da pochi mesi il primo centro d’arte partecipata che parla le lingue del Mediterraneo, a cura di Anna Serlenga e Rabii Brahim in collaborazione con Marta Meroni e il comitato di quartiere, che ha lanciato una call artistica esplosiva con tre progetti vincitori: un nuovo tassello urbano nato per coinvolgere i cittadini e le cittadine del quartiere nella produzione artistica e nella programmazione teatrale e performativa, attraverso un processo partecipativo di immaginazione collettiva.
Una call dal forte taglio decoloniale, per artiste e artisti del bacino Mediterraneo residenti a Milano, lanciata a luglio 2020 nello spiraglio pandemico e che ha raccolto 41 candidature provenienti da tutta la città: in palio una residenza creativa e la partecipazione al festival di Milano Mediterranea programmato per l’estate 2021. Il Comitato di Quartiere è un gruppo eterogeneo di abitanti, lavoratori, affezionati al Giambellino-Lorenteggio – molti dei quali facenti parte del CD GIAMBELLINO, CDE CRETA, CDE IRDA, Dynamoscopio, Colorificio, Officina della Produzione, Teatro La Creta, con la direzione di Milano Mediterannea – e ha partecipato alla selezione di artisti. Hanno vinto Mombao, un duo italo-iraniano composto da Damon Arabsolgar al sintetizzatore e Anselmo Luisi alla batteria, he disegna paesaggi sonori passando dall’elettronica al jazz, usando solo due strumenti e suonando a piede libero liberamente sul palco; Giorgia Ohanesian Nardin, artista, coreograf_ ricercator_ indipendente e agitator_ queer di discendenza Armena la cui ricerca si compone di eventi pedagogici e performativi che focalizzano l’esperienza del piacere come forma di resistenza all’oppressione con un approccio transfemminista queer con lo studio di pratiche somatiche; Emigrania, ovvero Alessandro Cripsta, illustratore che costruisce immagini capaci di alludere all’inconscio collettivo e assieme a Daniele Bonaiuti, grafico, ha pubblicato Emigrania, libro illustrato sull’esperienza di accoglienza con Refugees Welcome.
Abbiamo intervistato la direzione artistica di Milano Mediterranea.
Milano Mediterranea è un nome suggestivo per un progetto. Cosa si nasconde dietro l’insegna? Chi siete voi, intendendo il voi non come somma dei singoli ma come intenzione unitaria?
Milano Mediterranea nasce dall’unione, nella vita professionale e privata, di Anna Serlenga, regista teatrale, ricercatrice italiana e Rabii Brahim, attore professionista, musicista e performer tunisino. Il terreno di lavoro sul quale ci siamo incontrati è la creazione di progetti performativi partecipativi in territori complessi. Dopo sette anni di lavoro condiviso in Tunisia, dove abbiamo fondato CORPS CITOYEN un collettivo artistico pluridisciplinare insieme ad altri tre amici e colleghi, siamo tornati in Italia, a Milano.
Milano Mediterranea nasce dalla volontà di radicare le nostre esperienze professionali nel territorio cittadino, con un ancoraggio preciso a un quartiere popolare come il Giambellino. Milano Mediterranea nasce anche dall’idea che la nostra città sia parte ormai dell’arco mediterraneo grazie alle recenti migrazioni che l’hanno trasformata in un luogo di incontro e scambio tra culture. MM si pone l’obiettivo, però, di contribuire a modificare la narrazione sulla migrazione, che vede ancora oggi i migranti unicamente come oggetto del discorso, e si propone di operare uno spostamento da oggetto a soggetto, dove le comunità di nuovi cittadini diventino protagonisti della produzione culturale. Per questa ragione, proponiamo l’attivazione di un centro d’arte partecipata, capace di mettere al centro le lingue del Mediterraneo costruendo un dialogo con artiste e artisti mediterranei presenti nella città di Milano, da un lato, ma che vengono messi in relazione con due diverse comunità di cittadini dall’altro: gli adolescenti, i nuovi cittadini del quartiere e futuro della città, insieme agli abitanti storici, memoria ancora oggi attiva nel tentativo di costruire coesione sociale.
Il tema di cosa siano le comunità meticce nel sistema mondiale interconnesso è un elemento centrale per la comprensione delle dinamiche sociali, specie nelle nazioni occidentali. Cosa significa portare un esperimento di questo genere in una delle più visibili metropoli mondiali e forse l’unica italiana per vocazione?
Io (Anna ndr) sono nata e cresciuta a Milano ma poi per molti anni sono stata nomade, di cui sei anni trascorsi a Tunisi. Quando sono rientrata a Milano la sensazione che mi ha accompagnata è stata quella di trovare una città molto cambiata, perché – non credo per intenzione politica quanto per un dato di fatto – la città è diventata più internazionale, abitata da diverse comunità e soggettività che prendono oggi parola e spazio nel dibattuto pubblico cittadino. Questo dato è sembrato forte e interessante per noi, che sentiamo il bisogno di porre la questione centrale del chi parla, di chi può prendere parola, anche nella produzione culturale, che è ancora molto white in Italia e dove spesso l’interesse per il “meticciato culturale” – termine che non amiamo, perchè presume delle identità solide e integre, che si mescolano” ibridandosi, mentre in realtà come sappiamo tutte le culture sono di per sé meticce, creole, stratificate – si traduce in un paternalistico parlare di, raramente con e quasi mai si pensa addirittura a cedere il microfono.
Un tweet di Su‘Ad Abdul Khabeer riassume bene ciò che sentiamo: “You don’t need to speak in voice of the voiceless. Just pass the mic!”. Crediamo che nonostante Milano sia una città che guarda al mondo il dibattito sulla produzione culturale in questa direzione, che definiremmo postcoloniale, è ancora molto in divenire.
Il vostro è un progetto che, più che periferico, definirei migrante nel senso che mira a porre sotto esame processi di spostamento culturale da un luogo di pensiero a un altro. Pensate di poter condividere questa definizione?
Il nostro progetto mira a spostare effettivamente lo sguardo, a ribaltare la prospettiva del noi e loro, per restituire un’immagine complessa, stratificata, dove non siano più cosi riconoscibili e integri il punto di partenza e quello di arrivo. Credo che il logo che Letizia Filisetti ha sapientemente disegnato per noi riassuma bene la postura del nostro lavoro: una semplice dichiarazione, quasi uno statement – Milano è Mediterranea – dove la parola ‘Milano’ è scritta in arabo e accompagnata da ‘Mediterranea’ in italiano, scritta sotto. Siamo già dentro a quello che viene pensato e percepito come uno spostamento ma che è in realtà la forma delle città contemporanee. Il dibattito insomma ci pare più lento della realtà delle cose: i ragazzi e ragazze che vengono etichettati come prima/seconda/terza generazione sono già altro, sono italiani bilingue, sono giambellinesi ma anche egiziani, così come la popolazione di Milano a livello storico è incrocio di culture, passaggi, movimenti di chi migra per lavoro. A che punto della filiazione genealogica (e di quale filiazione) smetteremo di contare? 🙂
(“Mi dispiace ma in scrittura non riesco a fare le battute che vorrei, e tutto sembra molto più pesante. Questo lo avrei detto con un sorriso” – ci confessa Anna rispondendo alle nostre domande. E noi lasciamo questa sua nota per chi la legge ora, insieme ai suoi smile con cui vuole suggerirci l’intonazione di questa e altre risposte).
In che modo sono stati scelti gli artisti che hanno partecipato alla call? Cosa vi aspettate da loro?
Il processo di selezione è stato molto interessante, perchè come artisti ci siamo trovati per la prima volta “dall’altra parte della barricat”a, da un lato, e dall’altro perché abbiamo dovuto creare dei criteri con cui impostare un lavoro che volevamo partecipato, e quindi accompagnato da un Comitato di Quartiere che abbiamo composto per l’occasione.
Il Comitato raccoglie circa diciotto persone di diversa età e provenienza, accomunate dall’essere parte attiva della vita di quartiere: chi abitante, chi lavoratrice di un Centro di Aggregazione giovanile, chi parrocchiano del Teatro la Creta, giovani che frequentano i CD e realtà del territorio già attive come Il Colorificio o Dynamoscopio.
Abbiamo creato dei criteri di discussione e valutazione, che abbiamo scelto fossero però per consenso e non per maggioranza – così da stimolare la discussione – e affidato a ciascun partecipante alcuni progetti da presentare al gruppo per iniziare la discussione. Ne è emerso un panorama di questioni cruciali per chi fa il nostro lavoro: cosa significa ingaggiare un territorio? Come valutare la qualità artistica di una proposta? Valutiamo il processo o il prodotto? È fruibile e da chi è fruibile l’output finale? L’arte deve essere rassicurante e rispondere a un bisogno o dirompente e aprire delle questioni scomode di un territorio?
Questo preziosissimo lavoro di discussione ha preparato il terreno e ci sembra interessante che, quando i progetti sbarcheranno in quartiere, non arriveranno come degli ufo paracadutati dall’alto (ah, quei fighetti del mondo dell’arte!) ma accolti e richiesti da un processo di committenza del territorio.
Inoltre, stiamo immaginando che alcune persone del comitato possano accompagnare come mentori, mediatori di quartiere, gli artisti nella loro scoperta del quartiere.
Esiste un modo attraverso cui l’arte possa davvero penetrare o cercare un contatto con le parti più fragili e ultra periferiche della nostra società? Come è possibile fuggire l’elitarismo negli esiti artistici e nella accessibilità alla fruizione?
Credo che il processo di cui parlavo sopra rispetto al Comitato sia centrale in questo senso. Noi crediamo che il lavoro degli artisti sia un pezzo di un lavoro quotidiano che si fa con un territorio e chi lo abita o attraversa. Per questo, per esempio, oltre alle residenze abbiamo lanciato due laboratori pensati come laboratori permanenti rivolti a giovani adulti e adolescenti. Il primo è volto alla creazione di una TRAP COMMUNITY OPERA, un’opera contemporanea scritta, musicata ed agita dai ragazzi e ragazze del Giambellino negli spazi pubblici del quartiere. Il secondo laboratorio, Illuminotecnica e fonica, è più breve e pensato per essere altamente professionalizzante e per costruire una squadra di giovani affezionati al quartiere che segua il lavoro delle residenze, prima, e poi del festival.
E noi sistema Italia dal punto di vista culturale siamo colonia o post colonia?
Credo siamo ancora colonia, il processo di decolonizzazione interessa anzitutto i coloni, chi la dominazione la agisce e l’ha agita. Ed il grande rimosso sul processo coloniale italiano determina fortemente il livello del dibattito contemporaneo sulla questione. Si pensi al caso di blackface apparso recentemente in televisione per imitare il cantante Ghali: mi sembra davvero manchi l’alfabeto per nominare gli assi di discriminazione e questo è un lavoro lento, lungo, e che ci vedrà impegnati per molto tempo ancora.
Noi stiamo provando a metterci il nostro! 🙂