MATTEO BRIGHENTI | Diego Armando Maradona. Maradona. O semplicemente “El Diego”, come volle intitolare la sua autobiografia all’inizio degli anni Duemila. È stato a tal punto un artista che basta il nome a richiamarne il volto, lo scatto, la storia. Lo stesso che succede, ad esempio, per Raffaello o per Michelangelo. «Basta fare la prova: parlare di Diego – commenta Pippo Russo – e vedere quanti non capiscano che ci si stia riferendo a lui, l’artista unico e irripetibile sceso sulla Terra a mostrare il miracolo del calcio».
Sociologo, saggista, giornalista e romanziere, Russo insegna sociologia all’Università degli Studi di Firenze ed è uno dei massimi esperti italiani in materia di studi sociologici sullo sport. Tra i suoi ultimi lavori di ambito calcistico, ricordiamo Soldi e pallone. Come è cambiato il calciomercato (Meltemi Editore), il successo internazionale M. L’orgia del potere. Controstoria di Jorge Mendes, il padrone del calcio globale e Gol di rapina. Il lato oscuro del calcio globale, entrambi usciti per le Edizioni Clichy. «È impossibile trovare qualcuno, oggi oppure in altri tempi, che si possa paragonare a Diego; – continua – ha cambiato il calcio perché ha messo definitivamente in mostra quale radice individualista vi sia in uno sport che è di squadra, ma a modo suo».
C’è un prima e c’è un dopo Maradona ed è quello che ricostruiamo in questa intervista, accompagnati dal Viaggio nel tifo di una città: Napoli, il reportage compiuto nel periodo 2015/2017 dal fotografo Renato Esposito, di cui pubblichiamo in esclusiva alcuni scatti inediti.
È opinione unanime o quasi: se n’è andato il calciatore più grande di tutti e di sempre. Per te come lo ha dimostrato?
Raccogliendo e vincendo sfide impossibili, come quelle che lo hanno visto vincere un mondiale (quello del 1986) da capitano di una squadra appena normale, o due scudetti a Napoli, con una squadra che mai aveva vinto il campionato prima e non lo ha più vinto dopo. È il più grande di sempre, in assoluto.
Su Domani l’hai chiamato «il Sommo Imperfetto». Quali erano le sue imperfezioni? Come è riuscito a superarle in campo, diventando il campione assoluto che è stato?
Diego era imperfetto se si guarda a tutti gli altri che hanno ambito o ambiscono al ruolo del più grande calciatore di sempre. Tutti ottimi atleti, alti, ambidestri, forti nel gioco aereo. Diego non aveva nulla di ciò. Era basso, tarchiato, tendente all’ingrassamento, non adatto al gioco aereo e usava soltanto il piede sinistro. Ma nonostante tutti questi limiti è stato il più grande.
Chi è Maradona quando arriva a Napoli? Che cosa gli hanno dato la squadra e la città che non avrebbe potuto trovare altrove?
Quando arriva a Napoli, Diego è giudicato il più forte calciatore del mondo senza aver ancora dimostrato di meritare quello status. A Napoli diventa il più grande in modo indiscusso. E ciò succede perché Napoli è città perfettamente nelle sue corde: chiassosa, barocca, generosa, contraddittoria, ribelle. Esattamente come lui.
Come definiresti il rapporto dei napoletani con Maradona? Devozione, venerazione, come si direbbe di un santo o di un dio fatto uomo?
Quello fra Maradona e Napoli è un rapporto viscerale, irripetibile. Come se fosse napoletano dentro. Diego era e rimane una divinità, ma al tempo stesso era e rimane uno di loro.
Maradona è stato il simbolo del riscatto di Napoli (i due scudetti, la Coppa Italia, la Supercoppa italiana, la Coppa Uefa), del Sud Italia e di tutti i Sud del mondo. Con la sua “Mano de Dios” a Messico ‘86, poi vinto, riscattò l’onore dell’Argentina a quattro anni della guerra nelle Falkland/Malvinas con gli inglesi. Aveva più coraggio, più altruismo o più fantasia, per citare Francesco De Gregori?
Aveva tutte queste qualità e molte altre. Ma se proprio devo scegliere fra le tre, scelgo l’altruismo. E qui stava la sua grandezza. Un fuoriclasse è individualista per natura, costantemente a rischio d’essere egoista. E invece Diego fu il più altruista dei fuoriclasse calcistici. Unico anche in questo.
A proposito di contrapposizioni, com’era visto dai poteri del calcio? Era ascoltato, tollerato o piuttosto osteggiato?
Diego è sempre stato un uomo contro. Non ha mai cercato un dialogo con la politica del calcio, né una carriera dopo aver smesso di giocare. E per questo ha anche pagato.
Fuori dal campo le sue “imperfezioni” sono tracimate e hanno finito per distruggerlo. È la sua umanità, declinata come fallibilità, che lo rende ai nostri occhi un moderno “eroe tragico”?
Il bello di Diego è che non ha mai provato a far passare di sé l’immagine del superuomo. Era divino in campo, ma umanissimo fuori. Con tutte le debolezze che caratterizzano qualsiasi persona normale, ma amplificate da una statura enorme da personaggio pubblico.
La morte come l’ha trovato?
Provato, forse anche stanco di vivere. Ma riguardo a quest’ultima cosa non sapremo mai la verità.
Se n’è andato il 25 novembre, lo stesso giorno di Fidel Castro e di George Best. Che significato gli dai?
Si tratta di una coincidenza, ma come tutte le coincidenze ha un suo significato. Fidel Castro e George Best sono due figure a cui Diego è stato legato in qualche modo: al primo da amicizia personale, al secondo da affinità artistica del pallone.
In una storica “autointervista” del 2005, nel programma argentino La noche del 10, disse che sulla sua lapide avrebbe voluto scrivere: «Grazie alla pelota». Noi per cosa dobbiamo ringraziarlo?
Di essere stato Diego Armando Maradona e di avere dato sempre tutto sul campo.
L’immagine in evidenza è stata scattata da Renato Esposito nel 2017 a Napoli, San Giovanni a Teduccio, quartiere Bronx, e racconta la realizzazione del murales di Jorit dedicato a Diego Armando Maradona. Tutti i diritti sono riservati.