RENZO FRANCABANDERA | “È un mese esatto che vi chiedo COME VA? COME STAI OGGI? Ogni giorno ricevo mail, messaggi… vostri pensieri, ricordi… tanti tanti ringraziamenti. VI RINGRAZIO IO. Mi dite di non smettere, di continuare …”.
Così scriveva quasi un mese fa sul suo profilo Facebook Massimiliano (Max) Cividati, una figura abbastanza anarchica e particolare del panorama teatrale. Regista e attore formatosi con artisti incredibili come Nikolaj Karpov e Svetlana Kutznecova (GITIS), Gregory Hlady (Teatro d’Arte di Mosca), Danio Manfredini ed Erik Claire (allievo di M. Marceau), fino a Jerzy Grotowski ed Eimuntas Nekrosius, ha fondato con Virginio Liberti EGUMTEATRO e dopo la fine di questa esperienza, nel 1998, ha fondato il gruppo AIA TAUMASTICA, di cui è regista e scenografo.
Da anni affianca l’attività di attore e regista con quella di insegnante, collaborando con diverse Università (facoltà di Economia e Commercio di Genova, DAMS di Brescia, tra le altre) e scuole private e statali (Accademia dei Filodrammatici, Paolo Grassi).
Dal 2010 dirige, insieme alla presenza importante, anche se poco appariscente, di Raffaella Bonivento, la Torre dell’Acquedotto, un centro di ricerca e produzione teatrale alle porte di Milano. È lì che l’ho conosciuto, poco tempo dopo che aveva sistemato con non poca fatica questo edificio simbolico di un recupero architettonico e funzionale alle porte di Milano. In quel posto ho visto spettacoli emozionanti, spesso di artisti internazionali che sceglieva lui andando in giro per festival in Europa. La Torre dell’Acquedotto è senza dubbio un luogo di resistenza culturale e la chiusura di questi mesi sta facendo male.
Da alcune settimane Max Cividati è protagonista di alcuni brevi ma intensi video su Facebook, che stanno avendo un grande seguito: video che lo vedono protagonista di narrazioni fra il personale e il sociale, che prendono spunto dalle vicende del vissuto proprio, per tracciare legami, dare spunti. Iniziati proprio davanti al teatro chiuso. E allora…
Ciao Max. Come va? Come stai oggi?
Io bene! Ma credo il tuo fosse uno spunto, non una domanda, vero?
Diciamo che era un po’ prendere spunto dai tuoi incipit, che pare comunque abbiano portato bene al tuo progetto di video su Facebook che è all’origine di questa conversazione. Come è nata l’idea di queste narrazioni con un avvio così diretto, affabile, quasi da amico che viene a prendersi il caffè a casa?
Perché volevo smarcarmi chiaramente dall’impressione che quel momento fosse “teatro”, o il tentativo povero di liofilizzarlo per la rete.
Pensi che il grande tema della solitudine in questo lockdown abbia a che fare con il successo di queste storie?
Penso piuttosto che il tema della gentilezza abbia a che fare con il lockdown. Anche se si è determinati o amareggiati, lo si può essere con gentilezza; e non parlo di violette ed abbracci, parlo di “cura”.
Siccome a volte non si comprende cosa e in che direzione si muova la viralità dei contenuti in rete, ci dai qualche numero sulla riuscita di questo tuo format comunicativo? Lo definiresti tale? E se no, come ti piacerebbe battezzarlo?
Mi sono dato tre semplici regole: 1) non scrivere nulla 2) una sola ripresa 3) niente post produzione. Non volevo, nel bene e nel male, che ci fosse troppo controllo. Cercavo un modo primitivo per essere “più onesto che bello”.
Relativamente ai numeri, premesso che sono analfabeta digitale e che i video sono sulla mia pagina personale Fb con 5.000 contatti e su quelle della piccola comunità dove vivo, devo dire che mi hanno stupito. Certo, le miei 70.000 visualizzazioni, in altra piattaforma e da chi abita con sapienza questo mezzo, sono cifre che fanno ridere e che si raggiungono in un’ora o due, ma io sono molto contento.
Molto del tuo impulso nasce dal teatro chiuso, un teatro resistente in un posto strano e bellissimo: una Torre dell’Acquedotto, ma che ha le sembianze di un faro. Cosa resterà da illuminare dopo questa tragica pandemia? Quali dinamiche avvertite muoversi nella società? Cosa ti scrivono le persone a proposito dei tuoi video?
Questo è il punto al di là dei numeri. Ricevo moltissimi messaggi e mail: ringraziamenti, riflessioni, confessioni… offerte. A scrivermi è spesso un pubblico “non teatrale”, persone che talvolta addirittura si scusano di non essere mai venuti a teatro, ma che sono certo verranno. Ecco il punto. Insieme al “come”, anche il fatto che questa “azione gratuita” abbia involontariamente creato una piccola comunità di affezzionati è una grande gioia.
Tutto inizia e finisce nei linguaggi dell’arte, ma pensi che i tuoi “come va” finiranno quando riapriranno i teatri, speriamo in primavera? Come si capisce quando è il momento di smettere? Lo decidono i like che calano?
Smetterò quando sarà un dovere e non un piacere farlo. Non ci guadagno nulla se non il rischio di sbagliare ed espormi a facili giudizi e preconcetti. Sono certo che la semplicità del format sia passibile di mille intelligentissime e raffinatissime critiche, ma la conferma che il problema dell’autoreferenzialità del nostro settore sia quanto mai attuale, è proprio nella natura del dialogo che in questo momento ho la fortuna di avere con un pubblico altro. Quindi, in definitiva, non c’è un piano: sono in ascolto.
E quali consigli dai a chi è a casa, artisti o anche semplici amanti del linguaggio, che vogliono farsi venire una buona idea su come comunicare in questo tempo?
Di cercare di essere franchi, onesti e di non ostinarsi a far passare un quadrato per un buco rotondo.