MATTEO BRIGHENTI | Duecentotredici metri quadri contro gli indifferenti. A due anni dal murale di Nelson Mandela, Jorit è tornato a Firenze per ritrarre un nuovo volto della lotta dalla parte dei più deboli: Antonio Gramsci, il politico e intellettuale comunista sardo incarcerato dal regime fascista dal 1926 al 1937. Sulla parete esterna di un condominio in via Canova, al numero 25/22, nel quartiere popolare dell’Isolotto, l’artista napoletano, specializzato in arte urbana ha da poco realizzato, insieme a Salvatore e Jeremy, un’opera che unisce un profondo realismo, grazie a una grande padronanza tecnica del mezzo pittorico, a un forte messaggio politico e sociale. «Firenze è una città coraggiosa che non ha alcun timore a ribadire “a grande formato” la sua vocazione democratica, antifascista e antirazzista – commenta oggi Luca Paulesu – questo è quello che più conta. Una parte della famiglia Gramsci vive qui: questa casualità è un motivo di orgoglio».
Antonio Gramsci era il fratello della sua nonna paterna, Teresina Gramsci Paulesu. Luca è nato nel 1968 a Firenze, dove ha studiato Giurisprudenza, vive e lavora. Ha collaborato come vignettista a numerose riviste e per Feltrinelli ha pubblicato la graphic novel Nino mi chiamo. Fantabiografia del piccolo Antonio Gramsci.
«Teresina era la sorella con cui Antonio aveva una particolare affinità e che è stata la destinataria di molte delle sue lettere dal carcere – precisa – da anni mi occupo della conservazione dell’archivio di famiglia e sono membro della Fondazione che gestisce la Casa museo a lui dedicata».
Insieme abbiamo parlato del significato e del senso del murale di Jorit per il nome dei Gramsci e, più in generale, per una città come Firenze. Un lavoro, promosso dall’Associazione culturale Teatro Puccini, in collaborazione con il Comune di Firenze e Casa spa, che ha fatto esclamare al suo autore: «Sono un nano che dipinge giganti, ma dopo questa opera mi sento un nano un po’ più felice».
«Antonio Gramsci – ha scritto Jorit – non è solo il filosofo italiano più letto e tradotto nel mondo. […] È soprattutto una cosa: lotta». In volto porta i tipici segni rossi che rendono i soggetti raffigurati dall’artista riconoscibili in quanto membri della “Human Tribe” a lui cara. Sono anche le ferite subite da Gramsci per la sua lotta?
I rappresentanti della “Human Tribe” di Jorit hanno dipinte sul volto le pitture di guerra. Le ferite e le cicatrici semmai arriveranno dopo, con la lotta. Tutti o quasi i soggetti ritratti da Jorit ci raccontano la storia emblematica di uomini e donne che hanno lottato per difendere un’idea di giustizia fino al sacrificio personale. Ma è una rappresentazione antiretorica del sacrificio. «I combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente». È una frase che Gramsci riferisce a se stesso, ma potrebbe essere valida anche per Nelson Mandela, Martin Luter King, Ahmed Tamimi, Geronimo.
Cosa obiettare alle accuse di chi parla di «eccessivo richiamo ideologico» o di chi invita a raffigurare, piuttosto, grandi politici della città come Giorgio La Pira o Lando Conti?
La scelta del soggetto da ritrarre è stata concordata fra l’artista e il Comune. Firenze è una città cosmopolita e questa sua dimensione si riflette anche nelle sue scelte per il Mandela e il Gramsci di Jorit e per altre in campo artistico che si sono succedute negli ultimi anni.
Quando due anni fa lo street artist presentò il suo murale di Mandela in piazza Leopoldo, gli chiesero chi altro volesse dipingere. Rispose proprio: «Antonio Gramsci». Che cosa unisce nel pensiero, nell’umanità, oltre alla comune prigionia e sofferenza, Mandela a Gramsci?
Entrambi furono dei combattenti. Li accomuna il rifiuto del compromesso che, in concreto, per tutti e due ha significato scontare tutta la pena inflitta. Il motto di Mandela – «Unitevi! Mobilitatevi! Lottate!» – ricorda quello dell’Ordine Nuovo gramsciano: «Istruitevi, agitatevi, organizzatevi». Altri tempi e altri contesti di una lotta giusta che fu ripagata allo stesso modo, con la persecuzione.
L’opera è in periferia, all’esterno di un edificio di edilizia popolare. È lì che Gramsci avrebbe voluto stare? Lontano dal centro, quindi dal potere, dal consenso, dalla vetrina?
Direi di sì. Gramsci è stato un pensatore con un punto di vista periferico. È nelle periferie delle città, come nelle periferie del mondo, che si manifestano le contraddizioni della nostra contemporaneità. È nella periferia che si manifestano più drammaticamente gli effetti di ogni crisi e quindi è dalla periferia che parte l’esigenza del riscatto e del cambiamento.
«Anche quando tutto è o pare perduto bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Le crisi consistono appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Odio gli indifferenti, credo che vivere voglia dire essere partigiani». Sono frasi tratte dagli scritti di Gramsci (dalle Lettere dal carcere, dai Quaderni del carcere e da altri articoli di giornale) e servite da guida e da riferimento a Jorit per dipingere i tratti di Gramsci, che adesso le ricopre completamente. Le parole sono importanti, stanno “dietro” e poi a cornice, ma ciò che conta davvero sono le azioni, le scelte di campo, è metterci, in sostanza, la faccia?
Antonio Gramsci è un personaggio in cui vita e pensiero si intrecciano strettamente. È stato un politico pratico, un uomo di azione e di parte, un martire dell’antifascismo e allo stesso tempo un grande intellettuale che viene oramai riconosciuto come un classico del pensiero del Novecento. In una lettera dal carcere Gramsci scrive: «Sono stato un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata». Ma a me riesce davvero difficile separare l’uomo di pensiero dall’uomo di azione. In Gramsci azione e pensiero coincidono.
Il 25 novembre scorso, nel giorno della morte di Maradona, Jorit, autore di un murale a Napoli anche su di lui, ha voluto ricordarlo da Firenze, a lavori ancora in corso, appendendo uno striscione al suo ponteggio: «Hasta siempre Diego». In che cosa il calciatore è stato, per così dire, gramsciano?
Nelle fotografie apparse in rete, per uno strano gioco di prospettiva, lo striscione con la scritta «Hasta siempre Diego» collocata sul ponte mobile pareva portare la firma di «Antonio», nome che compare in fondo al murale, quasi a significare il riconoscimento da parte di Gramsci per un personaggio che, per quanto controverso, ha sempre dimostrato di essere partigiano e di stare dalla parte degli ultimi della Terra.
Hai definito il murale un’opera michelangiolesca. Perché?
Quando ho visto l’immagine del volto di Gramsci, che ricordo nel formato fotografico originale di sette centimetri per dieci, riprodotta in una parete di più di duecento metri quadri, l’impressione che mi ha suscitato è stata proprio quella di essere di fronte a un’opera “michelangiolesca”, termine che nel linguaggio corrente si riserva a un’opera maestosa. Poi ho visto Jorit scendere dall’alto di un tetto, con un complicato sistema meccanico, stremato dal freddo e dal lavoro, coperto di vernice. Anche lui mi è sembrato “michelangiolesco”. Lo so, siamo a Firenze, questi paragoni sono pericolosi.
Qual è il significato dell’ape sul colletto della giacca di Gramsci e qua e là dei richiami agli alveari?
L’ape, da tempo immemore, è simbolo di operosità e organizzazione. Ape e alveari sono la rappresentazione simbolica degli individui che condividono uno stesso fine, che lavorano insieme e si organizzano e si sostengono reciprocamente in funzione del “dolce” benessere di una comunità intera. Questa mia lettura pare confortata dall’immagine che appare sul dorso dell’ape, due martelli incrociati. Jorit non riproduce la falce e martello, il simbolo del partito comunista, ma quello storico dei lavoratori della miniera, i più sfruttati, che si è imposto nella cultura popolare e nella grafica contemporanea come simbolo della working class tutta. È anche un’immagine che rappresenta orgoglio e spirito di parte, in quanto compare nello stemma di celebri squadre di calcio delle città minerarie inglesi. Come esempio di sintesi fra storia, arte grafica e cultura popolare è molto gramsciano, direi. Qualcuno mi ha riferito che Jorit con questi riferimenti ha inteso semplicemente introdurre nell’opera un messaggio ecologista. Potrei quindi avere sbagliato totalmente la lettura e me ne scuso, ma come si sa: «L’ambientalismo senza anticapitalismo è giardinaggio».
Il Gramsci che hai disegnato in Nino mi chiamo ha i tratti di un bambino. Anche il nome è un diminutivo. Di cosa è specchio quella piccolezza e di cosa, invece, questo gigantismo? Come direbbe il tuo Nino dell’Antonio di Jorit? Con quali occhi si guarderebbe lassù?
Il mio Antonio Gramsci, Nino come era chiamato in famiglia, è ritratto nelle sembianze di un bambino e io stesso ho giocato con il paradosso del piccolo e del grande per esigenze grafiche e narrative. Gramsci in una delle prime lettere dopo l’arresto racconta divertito dell’incredulità di un detenuto che, conoscendolo di fama e ritrovandoselo di fronte, stentava a credere che Gramsci fosse un uomo così piccolo e non un gigante. Sono perciò sicuro che a Nino il gigantesco Antonio di Jorit sarebbe piaciuto molto.
Verso dove è rivolto oggi il suo sguardo? Chi o che cosa guarda?
Un’opera d’arte di più di duecento metri quadri è soprattutto fatta per essere guardata. In questo senso il Gramsci di Jorit, come il suo Mandela, suggeriscono alla città un itinerario artistico alternativo che impone inevitabilmente una riflessione profonda sulla nostra storia recente e quindi anche sul nostro presente. È a questo che guarda l’opera. È un’operazione culturale affatto banale.