LAURA BEVIONE | L’emergenza sanitaria chiude le sale teatrali ma certo non interrompe l’attività dei teatri che, anzi, appiano impegnati – pur nella difformità dei risultati – ad affermare non soltanto la propria esistenza ma, in primo luogo, la propria indispensabilità.
Ecco allora che, di fronte al concreto rischio di essere rilegati fra le attività “irrilevanti”, il Teatro Stabile di Torino, in collaborazione con la Scuola Holden e il sostegno delle due fondazioni bancarie cittadine, CRT e Compagnia di San Paolo, ha ideato e concretizzato il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro che, dal 23 novembre fino al 15 dicembre, ha fattivamente coinvolto settanta esponenti della scena torinese: registi, attori, drammaturghi, scenografi, di età e di esperienze assai varie.
Sette gruppi e altrettante tematiche. Sette capigruppo e altrettanti “oggetti digitali-politici” da realizzare – un manifesto, una mappa concettuale, una fake-identity, un gioco/esperienza, una campagna di comunicazione, un messaggio alla nazione, un podcast. «Materiali per un’ipotesi di futuro», resi disponibili sui canali social del Teatro Stabile di Torino, da testare con gruppi di cittadini per raccogliere osservazioni e suggerimenti e, in seguito, da mettere a disposizione dell’intera comunità cittadina.
I leader dei sette gruppi sono stati individuati in Domenico Castaldo, Michele Di Mauro, Gian Luca Favetto, Jurij Ferrini, Marco Lorenzi, Olivia Manescalchi, Elena Serra. Ciascun gruppo, poi, ha potuto contare sull’apporto di un editor-facilitatore – Alessandro Avataneo, Guglielmo Basili, Federico Favot, Francesco Gallo, Marina Gellona, Federico Madiai, Umberto Morello – degli interventi di alcuni artisti-testimoni – Eugenio Allegri, Alessandro Baricco, Valerio Binasco, Fjodor Benzo, Emiliano Bronzino, Chandra Livia Candiani, Tommaso Cerasuolo, Laura Curino, Valter Malosti, Beppe Rosso, Gigi Roccati e Gabriele Vacis – e di esperti – Alice Avallone, Duccio Chiarini, Claudio Fogu, Ilaria Gaspari, Riccardo Milanesi, Jacopo Romei, Chiara Tirabasso.
In questo primo contributo, registriamo le testimonianze dei sette capigruppo, cui la vostra cronista teatrale ha chiesto di riflettere a partire dalle stesse due domande, ossia:
- Qual è il tema sul quale il gruppo da te condotto è chiamato a riflettere e come hai immaginato di svilupparlo?
- Durante queste prime settimane di lavoro come si è concretamente realizzata la tua idea iniziale: il confronto con i partecipanti l’ha modificata? Se sì, in che modo?
Il tema è Senza corpo. Si è utilizzato un metodo “maieutico”: abbiamo scambiato, fuori da ogni forma di giudizio su noi e sugli altri, la nostra visione di corpo e di che cosa si muove – è concepibile ed esiste – oltre il corpo.
Si è cercato di riconoscere, selezionare e sviluppare quello che di umano si riesce a muovere in una relazione attraverso “la macchina”.
Sì, l’idea iniziale è stata modificata al fine di realizzarla!
Ho proposto una serie di domande tese alla costruzione di un percorso auto-narrativo, da cui sono nati una serie di scritti autobiografici che hanno costituito il corpus del nostro lavoro attoriale. Parallelamente si è svolta la creazione della Fake Identity, il personaggio di Andrea Delfi, dei profili FB ed IG; da qui le varie manifestazioni “incorporee” del nostro personaggio “oracolare”.
Sono stati postati, negli ultimi otto giorni, video (uno per giornata), preceduti da una domanda esca, creati interamente dagli attori e dalle attrici del gruppo.
L’ascolto, e uno spirito collaborativo, teso a valorizzare le competenze individuali, ha permesso di costruire una via condivisa e contribuito alla partecipazione accorata di ogni membro del gruppo.
(grassetti e maiuscoli dell’autore, N.d.R.)
Il tema assegnatoci era sulla definizione di un MANIFESTO, intendendo, si suppone, un Manifesto per un Futuro Teatro. Possibile. Ah ah ah. Rido. E abbiamo riso tutti insieme, noi dell’Equipaggio 5_E L I S I R. Perché? Fondamentalmente perché un MANIFESTO (e ne abbiamo di illustri, nella storia del Teatro e dell’Arte in genere) è l’espressione di un MOVIMENTO, e il movimento, per essere ha bisogno di una costituente e di Artisti che lo hanno Definito e lo frequentano da tempo e che veicolano una Poetica in movimento, appunto.
Noi, siamo stati messi insieme un po’ per caso (anche se il TST qualche logica sott’intesa l’ha seguita).
Per cui: nessun movimento=nessuna poetica=nessun Manifesto. Chiaro, no?
Per questo, ci è venuto da ridere! Ma… se di Manifesto doveva trattarsi… di Manifesto, trattammo.
Ho portato l’Equipaggio verso una deriva possibile e anche, alla fine, vincente: il nostro, sarebbe stato un Manifesto PRE_Creativo, anzi, sarebbero stati degli APPUNTI PER UN MANIFESTO PRE_CREATIVO puntando cioè, il mirino non sulla CREAZIONE, ma su un processo metodologico Precedente.
Intendendo per tale, un METODO di Frequentazione Tecnico/Pratica dei Tempi e dei Luoghi del CREARE, da considerare P R I M A di prendere specifiche decisioni progettuali.
Un percorso che mette insieme una visione tecnica personale, specifica, e altri percorsi tecnico/filosofici e di meditazione, utili al tempo del PRE.
Ma niente di trascendentale, attenzione! Tutta roba concreta e con basi anche antropologiche, scientifiche, e perché no, poetiche!
Beh, dopo un paio di giorni di discussioni e d’inevitabile tentativo di “conoscenza” reciproca… è arrivata (non importa come) un’illuminazione che cominciava ad alleggerire la ciurma. Ci saremmo occupati di produrre un Oggetto che non riguardasse, direttamente, un Futuro Teatro Possibile, ma… le Arti in genere. E senza puntare alla “Creazione d’Arte” ma a Qualcosa che sta PRIMA, del Creativo: il PRE_Creativo.
Senza dimenticarci del sacro, del rito, della condivisione, della comunione, dell’essere, dell’esserci, dello stare, della sincerità e della menzogna, della vita vera e di quelle astratte e parallele.
Senza rivolgerci al Pubblico del Teatro e al suo mondo, ma… a TUTTI. A tutti e a Ognuno avrà intenzione di seguire un DECALOGO (abbiamo scelto questa forma di costituzione del Non_Manifesto). 10 PAROLE per un Cammino PRE_Creativo.
Ho scritto OGNUNO, perché alla fine il nostro non_Manifesto sarebbe bello fosse destinato a chiunque voglia affrontare un Tempo e dei Luoghi di CREAZIONE!, anche senza avere un Passato che glielo conceda o glielo garantisca. E lo è, destinato a quell’OGNUNO”. Anzi, è dedicato, a quel “CHIUNQUE” voglia fare una passeggiata impegnativa ma sostanziale.
Ma allora, di che ci occupiamo, sire?
Del Tempo e del come starci dentro, prima ancora di Sapere di dover sapere.
Di filosofia?
Forse.
Di arti meditative?
Anche.
Di sperimentazione?
Non scherziamo!…Occupiamoci di tutto ciò che potrebbe esserci utile, per arrivare, un giorno, a occuparci di qualcosa.
Non essendo un Gruppo ma dei Singoli messi insieme per l’occasione, ci sono voluti un po’ di giorni per cominciare a ragionare come una COMUNITÀ di singole Unità. La difficoltà di partenza si è trasformata abbastanza velocemente in una Forza propulsiva, grazie alla tenacia di ciascuno, alla curiosità, alla caparbietà con cui si è affrontata la materia, tutti insieme.
Che sollievo, poter usare l’espressione TUTTI INSIEME, in questo periodo di Distanza Fisica, Casalinga e Sociale. Perché è stato così: si è trattato di provare a non essere dei singoli, ma delle singole unità che provavano a esserne una unica, di UNITÀ. In pratica: una COMUNITÀ. In grado di sentire e gestire il valore della parola INSIEME. Il “mandato”, poi, ci ha dato una bella spinta. E col passare dei giorni abbiamo trovato una Direzione Comune. Abbiamo cominciato a intravedere la Terra ferma. E anche se all’inizio era solo un Miraggio… lo vedevamo. Tutti, e questo ci ha dato forza. Serietà, divertimento, dialettica e teoria spinta ci hanno accompagnato costantemente. Sono stati 18 giorni di rara portata nutritiva e di confronto.
Una figata!
Gian Luca Favetto
Per qualunque lavoro che mi appresto a fare, per esempio scrivere un romanzo, non so già tutto ma vado a dialogare con i personaggi che incontro. Dunque non avevo un’idea precostruita prima di iniziare il lavoro con il nostro gruppo.
Il nostro tema è Centimorgan (cM) – una parola non immediata, si tratta infatti del sistema di misurazione del DNA. Dalla sigla cM il caso vuole che salti fuori “concettuale mappa” e, in effetti, l’oggetto digitale-politico che dovevamo costruire era una “mappa concettuale”. Il sottotitolo, poi, era: «una mappa genetica del teatro che è stato e che sarà». Avevamo intuito fin da subito che l’avremmo fatto ma, dopo venti giorni di lavoro, abbiamo deciso di cambiare il sottotitolo, così: «la mappa genetica del teatro che è stato e dei teatri che saranno». Non c’è mai stato “il teatro” ma ci sono sempre stati “tanti teatri” e dunque chiariamolo, a maggior ragione ora.
Nella mappa concettuale abbiamo accolto la “tempesta”, identificata con il Covid, riconoscendola come l’elemento evidente che porta in superficie il bisogno di cambiare. Il Covid, costringendoci all’immobilità, ha illuminato una condizione, anche ambientale, di crisi.
Abbiamo costruito un lavoro a partire dalle nostre esperienze, dalle nostre storie. All’inizio abbiamo messo una foresta di parole, il caos primigenio, l’humus per le radici. Da quella foresta di parole, concetti, pratiche crescono le radici del teatro. Abbiamo individuato gli elementi essenziali, eterni del teatro, il suo DNA: attore, pubblico, spazio e tempo. Su di essi abbiamo ragionato e, alla luce della “tempesta”, abbiamo introdotto altri elementi, delle domande, e abbiamo costruito un arco di metodi e pratiche da portare, armi e bagagli – sintetizzato nell’immagine dei cassoni utilizzati dalle compagnie di giro. Al fondo, poi, proponiamo, come fossero delle radici che diventano fronde e viceversa, più direzioni possibili. Alcune le indichiamo, altre le lasciamo indicare a chi verrà dopo di noi, ossia ai fruitori di questa mappa. E questa mappa è un viaggio. E in tutto il percorso, che va da sinistra a destra, la maggior parte degli elementi è linkabile: schiacciando sopra si va a delle immagini, delle teorie, a figure del teatro.
Abbiamo lavorato in modo comunitario: il singolo portava il suo lavoro ma lo masticavamo, digerivamo tutti insieme. Ciascuno ha raccontato le sue storie personali e teatrali. Abbiamo, poi, lavorato sulle idee, sui concetti. Abbiamo fatto poi un lavoro sulle parole: a partire dalle storie raccontate, abbiamo raccolto centoventi parole, che sono concetti (da industria a godimento, apollineo, dionisiaco, nudo racconto, morte, dilettantismo…). Da queste centoventi concetti siamo poi passati a sessanta, poi dieci e poi ci siamo confrontati in fieri e abbiamo capito che le parole essenziali per il teatro sono: attore, pubblico, spazio fisico, tempo, relazione, rito, responsabilità e patto di fiducia. Da qui si muove il fare teatrale del presente e del futuro.
Il tema che è stato assegnato al nostro gruppo è Messaggio alla nazione, da sviluppare in modo che diventasse un oggetto digitale-politico.
Per quanto concerne l’aspetto “digitale” è stato determinante il nostro editor, Federico Madiai, che ci ha detto che il nostro oggetto non avrebbe dovuto superare i 90 secondi, mettendo in discussione quello che io pensavo di fare, ossia scrivere due pagine di concetti articolati che spiegassero perché ha senso che alcuni artisti, anche a nome di altri, rivolgano un messaggio alla nazione sull’importanza del teatro e dell’arte dal vivo in generale, sottolineando perché è importante la “compresenza”, l’essere vicini, non soltanto nella vita personale ma anche con quell’area di sconosciuti che fanno parte però della tua tribù, della tua cittadinanza.
Ci siamo dunque gettati anima e corpo nella creazione di questo oggetto digitale, che è diventato un distillato dei ragionamenti fatti durante le prime due settimane di lavoro. É venuta fuori una, a parer mio bellissima, canzone “recitata”, pre-rap, come ci ha spiegato uno dei partecipanti, Federico Sacchi che vanta una grande cultura musicale, riferendosi ad alcune artiste donne che, fra gli anni ’60 e ’70, facevano un “parlato” che assomigliava al rap, senza però battere tanto il tempo come oggi. C’è, quindi, un elemento musicale originale e una voce che abbiamo voluto a tutti i costi fosse femminile: abbiamo scelto la più piccola del gruppo, Maria Lombardo.
Con i partecipanti abbiamo concordato il target e si è detto “dai 25 anni in su” e io ho aggiunto, allora facciamo dai 25 ai 50 e, visto che passati i 50 anni ci sono quelli che riescono ancora a leggere due paginette, realizziamo anche uno scritto – un PDF mi hanno detto. Allora ho recuperato dal cestino le due paginette che avevo scritto all’inizio del progetto e le ho rielaborate alla luce del “distillato” – quest’ultimo composto da frasi sintetiche che condensano ciascuna un concetto e dunque fortemente poetico.
Ad accompagnare la canzone recitata e il testo scritto, poi, c’è anche un videoclip, affidato a un altro partecipante, Giulio Cavallini, la cui missione è stata quasi impossibile: costruire un video senza potere andare in giro a riprendere ma affidandosi esclusivamente a materiali di repertorio e, con questo, riuscire a raccontare la complessità di pensieri e di sensazioni emerse durante il lavoro. Tutto ciò in 90 secondi: ma ogni secondo, del testo recitato su musica come del video, è stato studiato a lungo perché possa essere efficace.
Per quanto riguarda il testo che ho scritto, in esso si narra questa storia che parte dagli albori dell’umanità, dalla prima comparsa dei sapiens nell’Africa centro-orientale, quando era abitudine riunirsi attorno a un fuoco ogni sera per incontrarsi, raccontarsi, riconoscersi. Le stesse pitture rupestri ci testimoniano come i nostri antenati non occupassero tutta la giornata a cacciare o a procurarsi la sopravvivenza bensì dedicassero del tempo anche a stare insieme, a essere tribù. Allora, infatti, dove non arrivava la propria voce , là era terra di stranieri, tutto era a tiro di voce – e questo a molto a che fare con il teatro. È la nascita della tradizione orale da cui poi, a partire da Omero, abbiamo fatto nascere la letteratura occidentale. Oggi, che una grande catastrofe ha sfilacciato la comunità, è necessario ritrovare quella spinta ancestrale dell’umanità a ritrovarsi.
Durante gli incontri via Zoom – la durata prevista era tre ore al giorno ma molto spesso siamo stati molto di più, a testimoniare la grande passione di tutti i partecipanti – abbiamo discusso molto sull’importanza della “compresenza”, giocando anche sulla parola “pandemia” e sulla sua etimologia – “ciò che interessa tutto il popolo” e, per estensione, “tutta l’umanità”: è chiaro che, nel linguaggio comune, questo termine è utilizzato in relazione all’epidemia, ma noi, un po’ provocatoriamente, abbiamo detto, allora la prossima pandemia scegliamola noi, cerchiamo di essere noi i protagonisti di un qualcosa che riguarda tutta l’umanità. E non tanto noi, umili artigiani del teatro ma qualcuno che, assistendo proprio a un nostro spettacolo – anche a una commedia, perché no – possa ricavare l’ispirazione per concepire un’idea innovativa e rivoluzionaria. Il teatro, d’altronde, non è forse un rito laico, capace di suscitare negli spettatori domande su cui riflettere e per cui, magari, trovare risposte innovative? Forse il teatro può essere capace di far sviluppare quell’idea che potrà partecipare a cambiare le sorti dell’umanità…
Il testo, poi, gioca anche sulla parola “partecipazione” che, come ha sottolineato proprio Maria Lombardo, contiene in sé sia “arte” che “azione”. Abbiamo riflettuto, poi, anche sulla parola “rivoluzione”, declinandola in maniera pacifica ma implacabile, perché non si può tornare indietro, perché non si stava bene prima del 2020, neanche a teatro… Ma se non possiamo vederci, se non possiamo incontrarci, sarà difficile il cambiamento…
Credo che questa esperienza sia stato un gesto meraviglioso da parte del direttore – e di tutto lo staff – dello Stabile di Torino, che ha utilizzato l’avanzo di bilancio per proteggere gli artisti, chiedendoci di fare un lavoro diverso da quello che siamo soliti fare ma che ci sta appassionando davvero molto.
Marco Lorenzi
L’emozione di scoprire che il tema che ci veniva consegnato fosse il gioco o esperienza digitale intesa anche come possibilità di riflessione politica, è stata grande.
L’esperienza delle tre settimane di lavoro con il gruppo di OPEN ci ha permesso di esplorare l’idea di gioco come un dispositivo di coinvolgimento dello spettatore/giocatore e anche come processo di sintesi del reale (e in questo le similitudini con il teatro sono impressionanti). Grazie a questo duplice aspetto, il gioco permette e stimola una riflessione sulle nostre abitudini, sulle nostre domande etiche, sul nostro essere uomini e donne che vivono un momento storico così complesso. In quanto tale sono stato affascinato dalla vicinanza a un certo tipo di approccio teatrale che portano avanti certi “mostri sacri”. Quello che Vassiliev chiama “teatro ludico” è qualcosa che ho cercato di digerire nel tempo e di riconsegnare qui. É anche vero che il gioco in quanto gioco puro – quindi tutto un mondo che soprattutto con il lockdown è esploso, il gioco di ruolo, il larp, le esperienze digitali di gioco online – è una realtà a me non così vicina e dunque per me è stato anche un vero e proprio percorso di conoscenza, un possibilità di uscire da alcuni pattern di visione e lasciarmi andare con dolcezza a stimoli completamente nuovi. La presenza delle figure di “esperti” che il TST ha affiancato al nostro lavoro – Chiara Tirabasso ed Emiliano Bronzino – ha contribuito non poco ad arricchire questo processo, così come è stata determinante la fiducia che hanno espresso verso il lavoro che progressivamente stava prendendo vita.
Con ironia, mi sono ritrovato a sottolineare che nella mia vita, forse, il gioco di ruolo io l’avevo sempre ritrovato nel teatro e per questo non ho mai sentito il bisogno di ricorrere ai giochi. Mi torna in mente la famosa immagine di René Girard quando parla della sindrome di Bottom, che vuole fare tutti quanti i ruoli, perché il teatro mi dà quella possibilità di andare fuori di sè, di incontrare l’Altro da sè, e di compiere un’esperienza profonda di conoscenza.
Il gioco su cui abbiamo ragionato va a lavorare sullo stesso meccanismo, ovvero dare l’opportunità di vivere un’esperienza fortemente al di fuori delle nostre esperienza abituali da permetterci di porre delle domande etiche, morali, politiche fondamentali su cui altrimenti sarebbe più complesso arrivare.
Il lavoro con il gruppo è stato fin da subito molto “orizzontale” e io mi sono occupato di organizzare il lavoro, cercando di valorizzare al massimo i desideri e le nature artistiche dei singoli partecipanti.
Il nostro compito non era semplice, perché da una parte si trattava di lavorare sulla drammaturgia – e un gioco di ruolo richiede una drammaturgia severa, è come se avessimo dovuto scrivere un film di Hitchcook -; dall’altra sulla programmazione digitale. Mi è venuto dunque in mente di proporre la suddivisione del gruppo in due tavoli: il tavolo tecnico (soprannominato “Matrix”), che si occupava di progettazione e sviluppo, e il tavolo di scrittura. Grazie all’apporto del nostro editor, Guglielmo Basili, il molto materiale che abbiamo scritto – quasi un romanzo – ha acquisito unità e coerenza. Dall’altra parte, invece, Davide Barbato, Eleonora Diana e Marta Laneri si sono occupati molto della programmazione web e degli aspetti tecnici. Per far confluire il lavoro dei due tavoli nel gioco che abbiamo realizzato siamo partiti dalla costruzione di un linguaggio comune in base a quello che noi sentivamo che del gioco potesse essere simile a quello che noi consideriamo teatro ma, soprattutto, in base a quello che consideravamo diverso. Infatti credo che una grande ricchezza dell’esperienza che ci è stata messa a disposizione sia stata non ragionare per similitudini – che è un punto di vista contrario a un viaggio di conoscenza – , ma riconoscere che fra quello che io conosco della mia vita e quello che mi viene messo davanti ci sono delle differenze e proprio queste ultime sono state preziose come punto di partenza.
Per quanto riguarda concretamente il gioco, abbiamo pensato di ragionare sulla attualizzazione di un modello affascinante e seduttivo come quello del radiodramma. Recuperare un linguaggio molto accogliente e suggestivo e che a teatro quasi non si usa più come il radiodramma ci sembrava una bella idea, ma volevamo anche privare un po’ il nostro oggetto digitale-politico di immagini e input visivi visto che le immagini dei nostri dispositivi digitali ci stanno sommergendo da ogni dove: l’intenzione era svuotare l’immagine e incrementare la voce, il suono. Al radiodramma, abbiamo poi pensato di affiancare un altra esperienza un po’ “vintage” quella del libro-game, del romanzo a bivi in cui potevi gestire le scelte del tuo personaggio. Da qui è nata l’idea di un “audio-game”a bivi, che abbiamo intitolato Ventiventi.
La storia parte da qui: nel 1919 c’è stata una terribile pandemia, quella dell’influenza spagnola. Per reagire a essa tutti i governi d’Europa decisero di chiudere tutti gli spazi di aggregazione culturale (teatri, cinema, biblioteche, scuole…). Fra il 1919 e il 1920 ci fu però una ribellione aperta verso questa decisione da parte di una minoranza di carbonari che volevano invece che questi luoghi rimanessero aperti: i governi, per reazione e per salvaguardare la sanità pubblica, dichiarano quegli stessi luoghi fuorilegge. Dal 1920 al 2020, però, quei luoghi non sono più stati riaperti e, soprattutto, le persone non si ricordano più a cosa servivano ma vivono chiuse in case altamente tecnologiche per strada ci sono solo i poveri e i rider.
Si tratta di un’ucronia, cioè immaginare che nel passato i fatti siano andati diversamente da quanto è effettivamente accaduto.
Il protagonista del nostro gioco è uno smemorato che, un giorno, viene contattato dalla resistenza che, dopo cento anni, continua ancora a lottare per salvaguardare la memoria artistica e culturale del passato e per dare a essa un futuro…
Il tema che ci è stato assegnato è Zero e l’oggetto politico-digitale da realizzare il podcast.
Al tema assegnatoci, ho aggiunto le mie riflessioni fatte prima di iniziare il lavoro con il gruppo a partire da quell’espressione, “irrilevanza del teatro” – e della cultura in genere – , utilizzata nel progetto dallo Stabile di Torino.
Mi sono posta molte domande su quale sarebbe dovuto essere il mio ruolo di leader, considerando anche che le persone del mio gruppo erano professionisti come me. La mia riposta, da subito, è stata quella di porre l’accento proprio sul concetto di gruppo: il mio ruolo è stato semplicemente quello di indirizzare e di prendersi la responsabilità della decisione finale in caso di situazioni di stallo. Abbiamo dunque lavorato insieme, in un clima fantastico: siamo diventati per tre settimane una vera e propria famiglia e non vediamo l’ora di vederci, avendo lavorato sempre in remoto. Fondamentale è stata anche la figura dell’editor, Federico Favot, che ci ha aiutato a scrivere il podcast, attività nuova per noi che siamo teatranti.
Per quanto riguarda il lavoro concretamente svolto, io ho semplicemente “aperto le danze” con un’immagine, un’idea che mi era venuta pensando al tema assegnatoci, a questo anno Zero, a questo futuro distopico: avevo immaginato una “femmina” che un giorno si sarebbe risvegliata in un mondo senza più nessuno e senza sapere cosa in realtà fosse successo. Era un’idea semplice: all’inizio abbiamo lavorato molto in astratto, sui concetti: qual è il senso del teatro, del racconto, del rito, di quanto sia rilevante per una società la possibilità di specchiarsi, di riunirsi, d’incontrarsi. Il teatro visto come cura. A partire da queste riflessioni, abbiamo poi creato insieme una storia, ambientata appunto in un futuro distopico – che forse è quello che stiamo già vivendo.
Abbiamo ideato una storia in forma di dialoghi, una sorta di radiodramma. Abbiamo creato dei personaggi vivi, che prendono concretamente vita. Recitiamo, prestando la nostra voce, tutti, compresi i registi del gruppo e anche l’editor Favot. Abbiamo realizzato cinque puntate e, poiché siamo dieci in tutto, ci siamo divisi in coppie e ognuna ha scritto una puntata, poi revisionata da Favot e ancora nuovamente dal gruppo per dare una certa uniformità e poi registrata, tutti insieme. Tutti abbiamo scritto e tutti recitiamo e abbiamo scelto i personaggi scelti per votazione: siamo stati davvero un gruppo molto democratico.
Tema: Congiunzioni. Sottotitolo: Dialoghi e relazioni per superare il distanziamento.
L’ ultimo significato che ci è stato consegnato è quello della parola “congiunti”, proprio una di quelle meno univoche e determinate. Qual è il sillabario dell’amore contemporaneo?
Consegna: campagna di comunicazione
Ho voluto riepilogare in dettaglio le indicazioni che ho ricevuto al momento della partenza per circoscrivere i confini di un tema che a una prima occhiata potrebbe sembrare tanto sterminato quanto farraginoso. Parlare oggi di relazioni, congiunti e distanziamento può diventare un tranello sospeso tra luoghi comuni abusati, nascosto dal dolore e dalla rabbia dei lunghi mesi che abbiamo vissuto e che ancora vivremo, trasformato da una narrazione piegata ai bisogni della politica e dell’economia. L’unico punto fermo dal quale sono partita è stato perciò semplificare.
Nella testa il titolo di una canzone di Tiziano Ferro, L’amore è una cosa semplice.Un’espressione immediata, quasi banale, ma sicuramente vera.
In un’ epoca di infinite incertezze in cui siamo bombardati da racconti che ribaltano di ora in ora la lettura della realtà, l’autenticità del sentimento d’amore, del bisogno di essere amati e di amare, l’esperienza alla portata di tutti mi è sembrata davvero l’ancora di salvezza, allo stesso tempo individuale e sociale. Sociale. Non ancora politica. Perché si possa passare da una tensione sociale (unione di desiderio e esperienza) a una politica è necessario un processo di elaborazione che ancora non scorgiamo. Qui entra in gioco il valore del Teatro. In questo preciso punto del ragionamento trovo che ci sia un’utilità del mio mestiere. Qui sento tutta la povertà di risorse che abbatte la capacità del nostro Paese di futurizzarsi positivamente.
Ancora, distanziamento sociale. Il distanziamento è stato fisico, non sociale. Anzi non siamo mai stati tanto connessi. Perché ci hanno consegnato un’espressione così evidentemente sbagliata? La confusione è nata a partire da una mancanza, da un desiderio istintivo, da una necessità fisiologica. La mancanza di uno sguardo diretto, della vibrazione dei corpi, del suono della voce che attraversa un’aria che entrambi gli innamorati respirano nello stesso istante.
Il teatro per me è il paradigma perfetto di tutto il discorso. Anche ora, in questo momento.
Ma siamo sicuri davvero che si sappia? Non sono certa che artisti, operatori culturali, politici, amministratori, pubblico e anche chi pubblico non lo è ne abbia coscienza. Per questo speravo che nella roulette delle assegnazioni il mio nome cascasse vicino alla casella campagna di comunicazione. Per poter dire che l’amore è semplice, è di tutti, è corpo e spirito, è futuro e può essere politico.
Lo sviluppo del lavoro ha seguito un processo orizzontale nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità di ognuno. Ho ceduto il coordinamento delle giornate di lavoro al nostro editor Umberto Morello che ha portato tutta la professionalità di Limoon (la sua agenzia).
Sarebbe stato ridicolo guidare il gruppo pensando di avere in tasca un mestiere che non è il mio. Ho diretto attraverso le domande, le polemiche, i dubbi. Ho avuto la fortuna di avere con me persone intelligenti, preparate e, nonostante tutto, appassionate. Ho pensato a quanto spreco di risorse umane si consuma in Piemonte e al fatto che il nostro provincialismo sabaudo è l’unico vero ostacolo alla ripartenza.
Qui mi preme molto sottolineare come l’unica voce fuori dal coro delle lamentele e dei tentativi di rivendere a un fantomatico pubblico televisivo la cultura a livello nazionale sia stata quella del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale. Forse varrebbe la pena di rivedere l’immagine di questa istituzione e restituirle il valore che ha dimostrato a livello locale e nazionale mettendola davvero nella condizione (anche economica e amministrativa) di procedere in questa direzione.
Per visionare tutti i sette oggetti digitali-politici: www.teatrostabiletorino.it/argo