LAURA BEVIONE | Fra la fine di novembre e dicembre dell’anno appena passato, il Teatro Stabile di Torino ha coinvolto una settantina di artisti cittadini in un innovativo progetto, finalizzato nell’immediato a offrire un’occasione di occupazione e, soprattutto, di originale riflessione sullo stato del teatro ai tempi della pandemia; in prospettiva, a stimolare trasformazioni virtuose nella realtà dello spettacolo dal vivo, non solo torinese.
Abbiamo già descritto natura e finalità del progetto Argo e, come promesso, proseguiamo l’inchiesta allora iniziata: dopo aver dato voce ai sette “capigruppo” delle altrettante compagini di lavoro, abbiamo sentito i partecipanti. Sette portavoce per ciascun gruppo: gli attori Yuri D’Agostino, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Federico Palumeri e Valentina Virando; la regista Thea Dellavalle e l’editor Umberto Morello.
A loro abbiamo chiesto di rispondere a queste due domande:
1) quale immaginavi sarebbe stato il tuo ruolo di argonauta prima di iniziare il viaggio di Argo?
2) che cosa ha effettivamente significato essere argonauta durante le tre settimane di viaggio/lavoro?
Ascolto, dialogo, relazione, responsabilità, capacità del teatro di “fare mondo”: parole chiave che offrono altrettanti stimoli per ripensare e ricreare il mondo che verrà…
Zero. RIPARTIRE DA QUI PER PROGETTARE LA SCENA DELLA SOCIETÀ FUTURA (= PODCAST)
Ripensando ai giorni precedenti ad Argo, a dir la verità, non mi sono chiesto quale dovesse essere il mio ruolo di “argonauta” all’interno del progetto. Me lo sono chiesto a metà dell’opera. E, a un certo punto, ho capito di avere avuto anche io un ruolo importante nel gruppo ZERO, un gruppo solido, affiatato, ben equilibrato, assolutamente democratico, tenuto insieme dalla meravigliosa cura di Olivia [Manescalchi] e dall’invidiabile praticità di Favot, il nostro editor.
Ricevuta la proposta di partecipazione al progetto, devo ammettere di aver provato da subito un forte senso di responsabilità. Essere riconosciuto all’interno del vivissimo tessuto culturale torinese, da un’importante istituzione come il Teatro Stabile, mi ha gratificato e mi ha spinto ad accettare la proposta con grande entusiasmo. La mia giovane voce, in un “coro” composto da tante altre voci pronte a lanciare un messaggio per un futuro nuovo, reagendo a questo momento di estrema difficoltà, in cui se non si dialoga e non ci si confronta sul serio, si rischia di cadere ulteriormente in quella maledetta trappola che ci riduce a tante piccole solitudini.
Un’occasione preziosa e incoraggiante, che andava affrontata per forza con responsabilità.
Un giorno, terminata una sessione di lavoro, seduto a pranzo, mia madre mi ha detto: «State facendo qualcosa di grande. Forse se voi artisti sentiste forte la responsabilità, quella stessa responsabilità che sentiamo noi infermieri e medici ora, cambiereste molte cose». Ricordo di aver ingoiato il boccone con molta fatica. E, per l’ennesima volta, ho dovuto darle ragione. E nei giorni seguenti, con i compagni di ZERO, abbiamo impostato il nostro lavoro proprio su questo punto: la responsabilità; andare avanti con coraggio e, nonostante l’interruzione delle attività dal vivo, far comprendere alle persone di essere rilevanti, di giocare un ruolo fondamentale nella società.
Le parole di mia madre mi hanno fatto tornare in mente un avvertimento lasciato da Cristina Pezzoli, grande regista e maestra (di vita, soprattutto), punto di riferimento per me come per tanti altri colleghi. Le sue parole le ha condivise in un video qualche mese fa Gabriele Vacis che, proprio grazie ad Argo, ho avuto il piacere di reincontrare, anche se via Zoom. Cristina, guardando in camera, dice: «Se vogliamo che quello che produciamo sia importante quantomeno come la salute pubblica, dobbiamo essere proprio sicuri che quello che produciamo sia importante per la comunità quanto un farmaco salvavita». Non credo ci sia altro da aggiungere.
Ripenso alle nostre tre settimane di viaggio con orgoglio. In questa lunga fase di fermo, di cui desideriamo ardentemente la fine, Argo è stato un attimo di sfogo, un’opportunità per tornare ad allenare il muscolo della creatività, con fatica, certo, ma senza mai dimenticare il prezioso valore del piacere. Il piacere di ritrovarsi, di aprire un dialogo costruttivo e di ricerca; il piacere del gioco di squadra, di creare storie, di immaginare mondi lontani e vicini, di confrontarsi con il pubblico cercando di capire di cosa ha effettivamente bisogno ora; il piacere e il divertimento di chiudersi dentro un armadio o di ficcarsi sotto a un letto con un microfono per registrare le puntate di un podcast – con tutte le difficoltà annesse, come il gatto che miagola passandoti accanto o il tuo vicino di casa che proprio quella mattina ha deciso di cantare a squarcia gola.
Mi piace pensare ad Argo e al lavoro con il gruppo ZERO come un rituale pranzo domenicale dove, al centro di una tavola imbandita, brillano piatti ricchi di storie e bicchieri strabordanti di idee. In questo incontro fortunato, ognuno si guarda, lanciandosi occhiate soddisfatte di questo momento di riconciliazione. Tra una portata e l’altra, si parla di futuro con paura o con fiducia. Qualcuno si alza in piedi e racconta storie, ma nessuno vuole alzare la propria la voce, anzi, tutti ascoltano con orecchie ben tese, con cura e commovente attenzione. Ci nutriamo delle esperienze degli altri e le facciamo nostre. Si ride, si scherza e poi ci si commuove.
«E tu hai paura?», mi chiede qualcuno. Lì per lì, vorrei rispondere di sì, perché vedo tutto incerto davanti a me e poi, a ben pensarci, siamo davanti agli schermi di tablet e pc e non attorno a un tavolo o su un palcoscenico. E poi ridiamo di nuovo, è il paradosso: siamo l’esempio di una preziosa comunicazione, resa ancora più forte da quelle stesse barriere virtuali che vorremmo tanto abbattere… Tuttavia, quello che stiamo facendo è fortemente necessario.
Al Teatro Stabile e ai miei compagni di viaggio Olivia, Federico, Charlotte, Elena, Enrico, Elisa, Irene, Girolamo, Simone e Riccardo, alle loro voci, alle loro storie, alla loro cura e dedizione e ancora a Gabriele e Duccio va il mio ringraziamento più grande. Spero che Argo, ricco di tutti i suoi materiali, abbia buoni frutti. E spero possa continuare, dal vivo, o, perché no, ricominciare con nuovi argonauti, magari in tempi migliori.
«Aspetta! Non hai risposto alla domanda…Tu hai paura?».
Ah, già. Cavolo. Esito un attimo e poi rispondo: «No. ZERO».
Centimorgan(cM). LA MAPPA GENETICA DEL TEATRO CHE È STATO E CHE SARÀ (= MAPPA CONCETTUALE)
Prima dell’inizio del progetto Argo non sapevo esattamente quale tipo di partecipazione sarebbe stata richiesta, né di quale gruppo avrei fatto parte ma di fronte agli obiettivi del progetto, molti e ambiziosi, ho pensato a una sfida interessante, ma soprattutto alla possibilità di una ricerca di una risposta concreta alla situazione di difficoltà del nostro comparto e del mondo della cultura messo alla prova dalla pandemia. Ho quindi aderito con curiosità e spirito di avventura a un progetto che interrogava gli artisti sollevando questioni legate soprattutto alla prospettiva del futuro per il quale occorre cercare soluzioni collettive, in dialogo e trasversali.
Ho trovato nel gruppo Centimorgan (leader Gian Luca Favetto, editor Alessandro Avataneo, equipaggio: Cecilia Bozzolini, Francesca Bracchino, Marco Gobetti, Riccardo Livermore, Silvia Mercuriati, Rebecca Rossetti, Angelo Tronca) uno spazio di confronto aperto e stimolante, sia in generale, sia rispetto all’obiettivo specifico di realizzare una “mappa genetica del teatro che è stato e che sarà”. Essere argonauta insieme a loro ha significato soprattutto rispettare il tempo necessario per farsi delle domande importanti e confrontarsi con percorsi differenti per età, per esperienze e per professionalità. Il percorso è stato particolarmente arricchente. Nell’impostazione data al lavoro c’è stato lo spazio per conoscersi e stupirsi di fronte alla varietà dell’esperienza che il teatro porta con sé e per incontrare pezzi di mondo portati dagli altri. Avere di fronte una mappa bianca, un foglio infinito, è stato immaginare, gettare semi, tessere legami, fare domande al futuro, come persone e come professionisti che mescolano poeticità e tecnica, arte e professionalità, e inventare creativamente delle soluzioni a problemi comuni nei limiti concreti dell’operatività. È stato un esercizio di democrazia che ha comportato il confronto e la volontà di essere chiari nel ridefinire le parole per orientarsi e quelle che dovranno avere spazio nei teatri del futuro: il titolo della mappa disegnata è mutato proprio immaginando una dimensione del teatro che dovrà essere plurale. I teatri del futuro? Diffusi, sostenibili, critici, contaminanti, accessibili, in ascolto.
Trovare insieme una linea e un metodo con cui immaginare quello che ancora non c’è: la nostra mappa è stato questo. Il futuro è da costruire e da esplorare. Abbiamo perciò voluto conservare questo aspetto, essere in dialogo costante, lasciando degli spazi vuoti che possano essere riempiti dalle proposte e dai suggerimenti del pubblico in senso lato in trasformazione con i mutamenti della società. Per me forse quest’ultimo aspetto è quello più importante; l’ho visto rispecchiato nella forma che ha preso il progetto Argo: essere in ascolto ed essere aperto. Credo perciò che il viaggio non sia concluso e che potrà portare frutti oltre la scadenza del progetto, oltre il prodotto, dando valore a quella che abbiamo definito “la capacità di fare mondo” del teatro, difficilmente quantificabile e non “visibile” nella breve scadenza, proprio perché chi l’ha organizzato ha condiviso questo atteggiamento. Territori nuovi chiedono strumenti nuovi, siamo dentro una partita che si gioca su più livelli. Se vogliamo rifondare o rivitalizzare il ruolo del teatro all’interno di un discorso più ampio che possa riguardare la politica culturale, occorre cercare e trovare anche i giusti interlocutori perché nuove proposte possano tradursi in azione e in reale e concreto cambiamento.
Senza Corpo. IDENTITÀ DIGITALI E AUTONARRAZIONE: DA NOI STESSI AL NOSTRO PERSONAGGIO (= FAKE IDENTITY)
Premessa: il giorno prima che mi venisse proposto di diventare un Argonauta, ero un naufrago nel mio stesso mare di disperazione per un settore, quello del teatro, che sentivo umiliato e incapace di organizzare una risposta collettiva efficace. Ammiravo il coraggio di Davide Livermore, il suo scagliarsi per proteggere il teatro, incurante di proteggere la sua posizione, la sua proattività nel trovare soluzioni che permettessero agli artisti di continuare a generare bellezza. Un po’ come noi per Il mulino di Amleto [ensemble di cui l’attore fa parte n.d.r.] con cui, a ogni paletto e blocco di ogni nuovo decreto, deviavamo e cercavamo strade nuove. Era diventata quasi una sfida per noi, cercare di essere come l’acqua che trova il suo corso per continuare inevitabilmente a scorrere.
Ed ecco che arriva la mail del Teatro Stabile di Torino, che mi stupisce positivamente, anzi, devo essere sincero, mi ha sbalordito e scaldato il cuore. Per la prima volta da quando sono uscito dalla scuola dello Stabile di Torino, nel 2006, ho percepito lo Stabile come un protettore, un guardiano di un’arte e di un territorio, qualcosa di materno, cura, stimolo. E di questo ruolo che si è preso in questo momento di crisi, gli sono profondamente grato.
Ho scoperto quali sarebbero stati i miei compagni di viaggio e chi avrebbe guidato il nostro gruppo soltanto il primo giorno di lavoro e nei giorni precedenti l’unica informazione che avevo era che il mio gruppo avrebbe lavorato sul tema Senza corpo – autonarrazione e identità digitale.
Per molti anni della mia giovinezza il mio tempo libero era quasi unicamente trascorso in camera davanti a un computer, a immaginarmi di essere ciò che non ero con giochi di ruolo e videogame; a crearmi quasi una seconda identità in un internet pre-Facebook, in cui i tuoi amici online ti conoscevano soltanto attraverso un computer; e questo mi dava il coraggio di aprirmi, di essere me stesso, di connettermi agli altri senza preoccuparmi troppo del loro giudizio.
Ero ansioso di portare questa mia testimonianza, di un internet 1.0 straordinariamente ingenuo, privo di webcam, dove le chat erano solo testuali, dove il corpo non esisteva, dove ognuno poteva autonarrarsi come preferiva e inspiegabilmente finiva invece per essere se stesso molto di più che nella vita reale; un internet così diverso da quello di oggi, fintamente social, in cui siamo costretti ad apparire e a fingere ancora di più che nel mondo reale.
È stata quindi una piacevole sorpresa per me scoprire che il capitano della nostra nave era Domenico Castaldo, un artista eccezionale, quasi interamente analogico, e per il quale il lavoro sul corpo è sacro e importantissimo; un artista che nel 2020 non ha Facebook, non ha Instagram, non ha Tiktok (e ne ignora felicemente l’esistenza), non ha neppure WhatsApp… Avere lui al timone ha fatto sì che la rotta prendesse una direzione diversa da quella che avevo immaginato, ma molto più stimolante e profonda. Si passava nella stessa giornata a parlare di storie Instagram e di Italo Calvino, di influencer e di cavalieri inesistenti, di tecnologia e di poesia.
Privi di un vocabolario comune, completamente eterogenei, provenienti ognuno da una storia artistica diversa, la difficoltà dei primi giorni non è stata certo l’entusiasmo, che non è mai mancato, ma il fatto che ognuno di noi remasse in una direzione diversa e ignari di dove fosse l’isola dove avremmo trovato il nostro Vello d’oro. Lentamente, però, abbiamo imparato a conoscerci e a utilizzare le nostre differenze e peculiarità come punti di forza e di ricchezza. Quasi invisibilmente ognuno di noi ha assunto un ruolo sulla nostra nave: c’era chi lanciava sempre nuove proposte, chi si occupava di trovare i punti critici, chi forniva nuovi stimoli, chi soluzioni tecniche… Il mio ruolo, a un certo punto, è diventato “il sintetizzatore”, colui che regolarmente cercava di dipanare la matassa, tirare le fila e distillare una proposta su cui lavorare fino al giorno successivo.
Da questa ciurma così differente e sgangherata non poteva che nascere Andrea Delfi, un personaggio senza corpo, ricettacolo di tutte le nostre paure e peculiarità, dentro al quale ognuno di noi poteva rispecchiarsi. Un’identità immaginaria che adesso è stata affidata a dei giovani liceali [studenti del Liceo Cattaneo di Torino n.d.r.] che la stanno portando avanti, sviluppandola ogni giorno di più; una Fake identity che, forse, in un internet falsamente social così diverso da quello che ho conosciuto io venti anni fa, è l’unico modo per essere di nuovo, davvero, se stessi.
Parabasi. PARLARE AL PUBBLICO E ALLA COMUNITÀ (= MESSAGGIO ALLA NAZIONE)
In realtà non immaginavo nulla: ero pronta e aperta a tutto.
Avevo letto i documenti che ci avevano mandato per spiegare un po’ il progetto, avevo capito che ci avrebbero divisi in gruppi, che avremmo lavorato a distanza, su Zoom, che avrei avuto un capogruppo che avrebbe guidato il gruppo di cui facevo parte, accompagnato da un referente della Scuola Holden, altro non sapevo. Devo dire che questo inizio misterioso è stato anche molto emozionante ed eccitante. Ero molto emozionata sì, è come quando cominci un nuovo progetto teatrale.
Inoltre non sapevo chi sarebbero stati i miei colleghi di lavoro.
Quando ho saputo che il mio gruppo si sarebbe occupato di Parabasi. Messaggio alla nazione ne sono stata davvero felice: caspita, un messaggio alla nazione, non è roba da poco, no? Cosa vorrei dire alla nazione? Cosa vorrei sentirmi dire? Cosa vorrei ricevere? La fantasia è partita…
Tornando al ruolo non sapevo davvero, so che mi sarei messa a disposizione per qualsiasi cosa fosse servita, sono curiosa, sono iperattiva, a volte troppo eh eh, quindi insomma ero a completa disposizione e spero che così sia stato.
Tutti i giorni per tre settimane, per tre ore al giorno, ci riunivamo su Zoom, ma ovviamente il lavoro andava ben oltre quelle tre ore, si continua a scrivere, a pensare, a immaginare, a scambiarci messaggi su idee, proposte… Ci davamo anche dei “compiti” da realizzare per l’indomani o per i giorni successivi.
Ovviamente la prima parte del periodo è servita per conoscerci, cercare di trovare una forma di comunicazione condivisa e comprensibile a tutti, un alfabeto comune abbiamo scritto in uno dei testi pubblicati, “parabasi backstage”. Il web, si sa, non è un mezzo semplice per dialogare: a distanza, con la connessione in differita, che a volte salta, uno rimane bloccato, l’altro non sente, le voci si accavallano, ma il gruppo è stato attivo, propositivo, molto onesto, schietto, sincero, un gruppo molto deciso che è riuscito ad instaurare una bella dinamica comunicativa, ognuno aveva il suo “ruolo”.
Abbiamo parlato e discusso molto su cosa doveva essere il messaggio alla nazione, cosa volevamo inserire, cosa era troppo politico, troppo poco politico, troppo limitante, troppo artistico… E, poco per volta, cercavamo di capire come comunicare il contenuto, anche se avevamo un mandato ben preciso: realizzare un video di massimo novanta secondi.
A disposizione avevamo una piattaforma condivisa su cui caricare tutto il materiale che ritenevamo utile, dalle musiche ai testi scritti dagli stessi componenti del gruppo, oppure video di riferimento, altri discorsi alla nazione famosi e meno famosi: devo dire che in tre settimane abbiamo prodotto un’enciclopedia di contenuti.
Ognuno di noi si è cimentato a scrivere, a elaborare, ad aggiustare, a correggere secondo la propria sensibilità il testo che gli altri caricavano e condividevano sulla piattaforma comune. Devo dire che nel mio gruppo ci sono state delle bellissime penne, a partire dal capogruppo Jurij Ferrini, poi Lorenzo Bartoli, Simona Nasi, Maria Lombardo, Giorgia Goldini, Federico Madiai (il nostro editor); inoltre Federico Sacchi e Carlo Roncaglia hanno anche una grandissima conoscenza musicale e quindi hanno suggerito la linea musicale del lavoro; e poi Giulio Cavallini, esperto nel montaggio, al quale è stato affidato il lavoro video. Abbiamo quindi lavorato in modo collettivo, dieci persone, scrivendo, aggiustando, creando uno storyboard, scegliendo le immagini che avrebbero costituito il video.
Abbiamo inoltre incontrato, ovviamente in remoto, il prof. Claudio Fogu, professore all’Università in California: incontro davvero notevole, abbiamo analizzato diversi discorsi alla nazione anche famosi, di quali parti si compone un messaggio alla nazione, l’attualità o meno di un discorso alla nazione…
Infine tra i vari appuntamenti e incontri ci sono stati il confronto con il tutor Beppe Rosso, che da esterno ha potuto con lucidità visionare il lavoro; e un appuntamento con alcuni spettatori del Teatro Stabile di Torino, ai quali abbiamo presentato una prima bozza del lavoro e anche in quel caso abbiamo accolto alcuni feedback suggeriti.
Per me ha significato molto questo occasione di lavoro: a partire dalla necessità di un nuovo confronto anche con me stessa.
So ascoltare? Riesco a spiegarmi? Riesco a essere chiara e a farmi capire? Se non ci riesco, perché?
Lavorare in gruppo, a distanza, in un collettivo, su un argomento importante come un messaggio alla nazione; avere un ideale da difendere, comunicarlo, tutti insieme, condividerlo, scegliere la parola che tutto il gruppo approvi, correggerla, toglierla, trovare un’immagine evocativa, trovare il mood, il sound; fare un passo indietro, scrivere anche se, ad esempio personalmente, non ne sono così capace; dire la propria opinione e, a volte, rinunciare a dirla perché è solo di troppo; ascoltare, semplificare e non banalizzare; ascoltare ancora.
Elisir. L’ARTE COME INGREDIENTE DI UN NUOVO EQUILIBRIO (= MANIFESTO)
É la stessa domanda che mi sono posto io.
La prima cosa che ho pensato è stata: è un’occasione fantastica.
Nei mesi di quest’anno si è dibattuto tanto intorno al teatro. Si è analizzato molto; il teatro è mancato. A noi che lo facciamo sicuramente, e ci si è anche domandati se mancasse a qualcun’altro.
Nel personale di ognuno, quest’anno, è entrato in maniera pesante il tempo: per molti è stato un tempo di riflessione e per altri un tempo di preparazione: per scrivere o, meglio, per immaginare il proprio personale futuro.
Ecco, ho visto in Argo una possibilità concreta e seria per immaginare un possibile futuro del Teatro, mettendo da parte le biografie.
E siamo stati chiamati a dare una risposta seria. Da tradurre in un oggetto politico.
Che sfida. Che difficile. Che responsabilità.
In tutto questo che ruolo avrei avuto? Forse un po’ attaccante e un po’ mediano. Sicuramente in uno spazio di grande responsabilità si è chiamati a essere tutti protagonisti. Mi era chiaro che dovessi portare, ricevere e lasciare.
Da subito volevo pensare e pensarmi nel futuro.
E cosa portare nel gruppo di lavoro? Mi è sembrato interessante non portare me “attore/artista” e quello che già sapevo, ma portare domande, desideri e il piacere. Per essere nella condizione di generare, col gruppo, un pensiero serio e lungimirante, che fosse un passo oltre e che potesse essere davvero utile.
Il gruppo di lavoro – Equipaggio 5, come ci siamo auto-battezzati dopo pochi minuti – è stato meraviglioso. Un po’ scomodo all’inizio, ancora meglio! Si dice che sia la condizione migliore per creare; anche se non avevamo intenzione di creare.
Da subito, anche grazie alla direzione chiara di Michele [Di Mauro], il nostro capogruppo, abbiamo avuto un obiettivo comune molto preciso. Una meta a cui puntare fatta di linguaggio e di senso. Una specie di setaccio per riconoscere ciò che non serve più, cosa distruggere, cosa tenere e cosa inventare.
Il lavoro è sempre stato al centro. Per mettere a disposizione una materia interessante e utile per tutti.
Ci siamo appassionati, ci siamo spesi tanto e abbiamo collaborato senza mai risparmiarci e mettendoci da parte quando serviva. Ci siamo chiamati equipaggio e ci siamo sentiti equipaggio.
Siamo partiti dal silenzio per occuparci del tempo. Un tempo di qualità. Un tempo di pulizia e un tempo di gestazione.
E ci siamo occupati di uno spazio. Uno spazio abitato dal desiderio – o da quello che c’è prima -, dall’intuizione, dalle scelte.
Una parola chiave è stata incontro. Incontro con l’altro.
E abbiamo fatto degli incontri incredibili, che ci hanno nutrito. In particolare non dimenticherò mai la lunga telefonata che abbiamo fatto con la poetessa Chandra Livia Candiani, che ci ha inondato di poesia e umanità. A me personalmente ha fatto vedere in modo lampante quanto l’essere umano non sia diviso dall’artista e la forza che può avere la parola giusta.
É stato un viaggio, una ricognizione in tutto questo, ed è stato pazzesco. Tutto aveva molto a che fare con il piacere.
Abbiamo lasciato tutto ciò che era vecchio, a volte anche in modo spietato, e abbiamo provato a immaginare davvero un futuro.
E, devo dire, è stato utile e pieno ogni singolo minuto di lavoro.
Si è viaggiato a una velocità incredibile. Ogni considerazione che nasceva dopo due giorni sembrava vecchia e pronta a essere sostituita da una nuova e più piena di significato.
Abbiamo trasformato i pensieri in pensiero.
É stato arricchente? Sì.
É stato utile? Sì.
É stato formativo? Sì.
É stato un momento di respiro? Sì.
Essere un argonauta ha significato essere parte di una riflessione seria sul futuro, di una possibile partenza verso un oltre e di una concreta possibilità per superare vecchie abitudini e vecchi sistemi.
Congiunzioni. DIALOGHI E RELAZIONI PER SUPERARE IL DISTANZIAMENTO (= CAMPAGNA DI COMUNICAZIONE)
Immaginare il proprio ruolo nel vortice di un gruppo non è mai un’operazione del tutto pacifica, soprattutto se il team è composto da attori. Da un lato, sai che sarai travolto dalla ricchezza della loro cultura, delle loro esperienze, del loro particolare modo di essere uomini che rappresentano l’umanità su un palco. Dall’altro, come loro, hai voglia di dare qualcosa che non sai ancora cosa, di preciso, sia.
Come molte dinamiche, però, anche questa ha trovato il suo modo di sbrogliarsi e, alla fine abbiamo navigato, volato, camminato e, perché no, fantasticato, per quasi tutto il tempo.
Al liceo ero abbastanza innamorato delle Argonautiche e, per la mia prima laurea, avevo lavorato sul lessico erotico della poesia contemporanea. Quando mi sono trovato in un progetto di nome Argo a fare da editor proprio del gruppo Congiunzioni ho, quindi, subito sperato che avremmo potuto strappare qualcosa di più di un vello d’oro a un simpatico drago; che magari – per così dire – il nostro viaggio avrebbe spinto altri ad avvicinarsi a luoghi che non praticano così spesso, ma che gli attori conoscono bene.
Le tre settimane del progetto sono state piene, esplosive, profonde. Davanti avevo delle persone che incarnavano una delle fantasie che ho sempre avuto sugli attori: quella che, per essere grandi sul palco, servisse – in qualche modo – essere grandi nella vita, esempi di una bella umanità. E, se è vero che i viaggi non li fanno le destinazioni, ma le persone, il nostro gruppo ha vissuta da subito un viaggio epico, che davvero -almeno nella nostra testa – ha avuto poco da invidiare a Giasone and Company.
Abbiamo discusso, creato, cercato. Volevamo trovare il minimo comun denominatore, il distillato essenziale di cosa volesse dire essere un attore, portare avanti uno spettacolo, avvicinarsi a qualcuno – un pubblico – sfiorando qualcosa di importante, dentro di lui.
E, alla fine, siamo arrivati – come in tutte le grandi epopee – a qualcosa di molto, molto semplice: l’attore non va in scena, ma connette alla scena; mette insieme delle relazioni, si espone, si prepara, e tutto per raggiungere, congiungersi all’anima di chi è disposto ad ascoltare la sua umanità, parlare da una nuova distanza.
Ecco, questo ci sembrava importante. Dire che quella distanza è desiderio, di un attore e del suo pubblico, ma anche di due persone, che semplicemente aspettano che qualcosa accada; che sia un incontro, che sia possibile cambiarsi – almeno un po’- la vita a vicenda.
Per raccontare tutto questo, abbiamo prima dovuto viverlo su di noi e abbiamo così capito che anche le distanze, le limitazioni, il distacco che stiamo vivendo, erano l’opportunità per dare una nuova chance all’incontro; per congiungersi, aprirsi, sfiorarsi; riscrivere assieme la prossima scena.
Open. IL GIOCO COME SPAZIO APERTO DI RAPPRESENTAZIONE E PARTECIPAZIONE (= GIOCO/ESPERIENZA)
C’è stata davvero tanta sorpresa ed entusiasmo, come quando devi prepararti per un viaggio di cui non conosci la destinazione e in valigia metti di tutto sperando di avere il giusto equipaggiamento. Poi domande in ordine sparso: in che gruppo sarò, chi tra quelli che conosco sarà con me, chi sarà il mio capogruppo?
C’era un desiderio di condivisione, e partecipare a un progetto che coinvolgesse così tanti artisti della mia città mi ha fatto sentire parte di qualcosa di importante e di nuovo. Quando ho scoperto di essere nel gruppo Open – in cui si doveva creare un Gioco – non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare e di cosa sarei stata in grado di portare. Dopo un primo disorientamento, con il gruppo ci siamo resi conto di quanto le nostre vite siano da sempre immerse nel Gioco, inteso non solo come mera evasione o desiderio competitivo ma come volontà di rappresentare la realtà secondo regole diverse e di poterla perfino reinventare, creando nuovi paradigmi.
Ho trovato un gruppo meraviglioso, un equipaggio eterogeneo ma coeso. Il nostro fantastico capogruppo Marco Lorenzi – ribattezzato per l’occasione Maestro Yoda – ha saputo orientarci verso una direzione comune, così come il nostro prezioso editor Guglielmo Basili. Abbiamo saputo sfruttare quella libertà di creazione che solo il gioco ti può dare: la possibilità di sperimentare, di abbandonare il giudizio per spingersi verso l’ignoto, con inventiva, con quel pizzico di aleatorietà che crea suspense. Ci siamo divertiti a creare un mondo altro: il Venti-Venti, ucronico rispetto al nostro mondo ma che ci facesse riflettere sui rischi della nostra società e del nostro tempo, portandoli all’estremo. Un mondo senza arte cosa significherebbe?
Abbiamo approfondito il concetto di Gamification, riflettendo sulle implicazioni etiche che può avere un mondo in cui tutti diventiamo utenti sottoposti a punteggio e a valutazione, ma abbiamo anche tentato di capire le nuove teorie che la gamificazione può far emergere e che possono trovare affinità con il nostro lavoro.
E abbiamo capito, una volta di più, che il teatro deve saper trovare il modo di coinvolgere il pubblico, senza dimenticare mai la propria funzione, che va oltre ogni gioco: quella di fare sentire quello stesso pubblico parte di un rito collettivo fondamentale, che accade quando una rappresentazione dal vivo sentiamo che ci riguarda e ci trasfigura.
Per visionare tutti i sette oggetti digitali-politici: www.teatrostabiletorino.it/argo