LAURA BEVIONE | La perdurante chiusura dei teatri e finanche la malaugurata proposta di utilizzarli quali luoghi da adibire alla somministrazione del vaccino, recentemente rilanciata pure da un per altro dignitosissimo candidato a sindaco di Torino, non hanno fiaccato la creazione artistica che, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid, sta proseguendo, quanto meno nei teatri nazionali e nei Tric, ma non solo.
Ecco, dunque, che la vostra cronista teatrale ha ricevuto l’invito ad assistere a una “filata” de Il piacere dell’onestà, primo incontro del regista Valerio Binasco con Luigi Pirandello, che avrebbe dovuto debuttare al Carignano di Torino.
Il foyer del teatro è avvolto nella semi-oscurità e noi spettatori, una decina, ci sentiamo una privilegiata setta carbonara: entriamo da una piccola porta, laterale rispetto all’imponente ingresso a vetri e, misurata la temperatura e igienizzate le mani, siamo invitati ad accomodarci ciascuno in uno dei palchi del primo e del secondo ordine. La platea un immenso golfo mistico che ci separa dal palcoscenico, amplificando la sensazione di solitario straniamento che ci accompagna durante tutta questa strana esperienza di teatro clandestino ai tempi della pandemia.
Una sensazione che convive, nondimeno, con una concentrazione intensificata: avvertiamo il nostro respiro, le variazioni e i sussulti involontariamente generati da quanto avviene laggiù, su un palco che, come non mai, ci appare quale una dimensione altra, un mondo parallelo e fantastico nel quale ci è temporaneamente consentito di spiare.
Nel buio fitto e silente si staglia il salotto alto-borghese di casa Renni: pareti chiare e arredamento minimale, vagamente anni Cinquanta, un appendiabiti dove ostentatamente si ripongono e si riprendono cappotti e impermeabili quali decisioni irrevocabili e scelte sofferte.
La giovane Agata – la misurata e convincente Giordana Faggiano – aspetta un bambino dal proprio amante, il marchese Fabio – Rosario Lisma che ben ne riesce a incarnare la viscida e fragile sicurezza –, già sposato, benché a suo dire infelicemente, il quale, in accordo con Maddalena, la madre di lei – Orietta Notari, come sempre impeccabile nel rendere debolezze ed emozioni dei propri personaggi – progetta di far sposare la ragazza, un matrimonio di fatto ma non di sostanza così da salvarne l’onore. Un cugino di Fabio, Maurizio – interpretato con disinvolto pragmatismo da Lorenzo Frediani – ingaggia un certo Angelo Baldovino – lo stesso Binasco, che aderisce con ragione ed emozione al suo personaggio – il quale acconsente allo sposalizio “bianco” con Agata in cambio del ripianamento dei propri debiti.
Lo scandalo, dunque, appare agevolmente schivato e persino gli scrupoli di Agata superati: eppure, fin dal suo primo ingresso in scena, Baldovino disorienta i suoi interlocutori con l’intelligenza dei propri ragionamenti, che smascherano con cordiale persuasività l’ipocrisia che hanno scelto di abitare, rivelando la volubile inconsistenza di quella rispettabile “onestà” che il matrimonio avrebbe garantito.
Il ragionare fitto e articolato di Baldovino e, ancora di più, la sua irritante ubbidienza alla “forma” che gli è stato chiesto di assumere – ossia quella di marito, impeccabilmente borghese – scrostano, costanti e implacabili come gocce di acidissima pioggia, quella facciata di mondana rispettabilità superficialmente affrescata da Fabio e dalla signora Maddalena. Così, in occasione del battesimo del bambino, è la volontà di Baldovino – il neonato avrà il nome di suo padre, la cerimonia si terrà in chiesa e non nell’appartamento di famiglia – quella che si impone, con il benestare, spontaneo e sicuro, della stessa Agata.
Il marginale Baldovino, per certi versi oscuro e inconoscibile, fragile eppure forte della piena consapevolezza delle schizofreniche sfumature della propria vita che ora scalpita per evadere dalla forma che, per economica convenienza, ha scelto di adottare, riesce, nell’atto conclusivo, non soltanto a smascherare la trappola in cui Fabio e Maurizio vorrebbero invischiarlo, ma a conquistare realmente l’amore di Agata, con la quale abbandona casa Renni, suggestivamente scendendo dal palco e attraversando la platea disabitata.
Un finale che, tuttavia, non è ammantato dal trionfalismo di un’apparante vittoria della sincerità e della “vera” onestà sull’ipocrisia borghese, bensì accompagnato da un sentimento di algido eppure struggente sconforto, un disincanto tanto radicato da raffreddare passioni ed entusiasmi senza, però, diminuirne la genuina profondità.
Un sentimento che attraversa l’interno allestimento di Binasco il quale, se da una parte controbilancia il ragionare scientificamente stringente di Pirandello con quadri di quotidiana e quasi fanciullesca tenerezza – il gioco di ombre di Fabio e Agata all’inizio dello spettacolo – dall’altra tende a un’astrattezza universalizzante, indubbiamente frutto della pluriennale consuetudine del regista con Jon Fosse, ma che sembra richiamare pure certi disfunzionali interni familiari alla Tennessee Williams.
Ecco, dunque, che il primo Pirandello di Valerio Binasco – e forse vale la pena ricordare che Il piacere dell’onestà debuttò proprio al teatro Carignano di Torino nel 1917, protagonista Ruggero Ruggeri – è qualcosa di distante tanto dal deprimente e purtroppo diffuso “pirandellismo”, quanto da un’operazione di pura filologia: piuttosto una sorta di mentale corpo corpo fra un regista inventivo e problematico e un drammaturgo probabilmente non troppo amato ma considerato stimolo per imbastire una riflessione sui rapporti, familiari e interpersonali, in palcoscenico.
Una lettura interpretativa che miscela predilezioni personali e peculiare indole creativa con una puntigliosa attenzione al testo di partenza, non semplicemente adattato o “tradito”, bensì compulsato e chiosato in chiave contemporanea e soggettiva, contando pure su una scenografia essenziale ed evocativa: una struttura girevole che consente di spiare in due differenti locali di casa Renni mentre, nell’ultimo atto, significativamente, il palco rimane spoglio, soltanto un telo bianco a separare forma e vita, sul fondo l’abitazione borghese, in proscenio Agata e Baldovino, i due “refrattari”, inevitabilmente esclusi.
E proprio il duetto finale fra i due coniugi esemplifica bene quella tonalità – razionale disperazione intrecciata ad accorato desiderio di autenticità – che dipinge l’intera messinscena, serrata e stringente, problematica e struggente, percorsa pure da un’innegabile commossa adesione di Valerio Binasco, regista, attore, uomo.
La vostra cronista teatrale, dunque, non può che augurarsi di assistere a una prossima replica non clandestina di uno spettacolo che, combinando rigorosa e seria professionalità e schietta umanità, conferma ancora una volta come del teatro, quello dal vivo e vivo, non si possa a fare a meno…
IL PIACERE DELL’ONESTÀ
di Luigi Pirandello
adattamento Valerio Binasco
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Gianluca Falaschi
interpreti Valerio Binasco, Giordana Faggiano, Orietta Notari, Rosario Lisma, Lorenzo Frediani, Franco Ravera
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Carignano, Torino
20 gennaio 2021