LAURA BEVIONE | La chiusura dei teatri ha spinto artisti e direttori a escogitare nuovi format, capaci certo di trattenere l’interesse e la passione degli spettatori, ma pure di riflettere sulla natura e sulle finalità del polisemico linguaggio della scena. Fra i vari esperimenti realizzati in questi lunghissimi mesi c’è Solo in teatro, ideato dalla regista e coreografa torinese Caterina Mochi Sismondi e prodotto da Cirko Vertigo.
Caterina, anche direttrice artistica del Café Müller, a pochi passi dalla principale stazione ferroviaria di Torino, ha pensato di far abitare gli spazi, forzatamente solitari, del teatro, da alcuni artisti – attori, registi, danzatori, musicisti – offrendo loro la possibilità di realizzare un periodo di residenza. Una-due settimane di lavoro in eremitaggio creativo, testimoniato da un docufilm e concluso da un esito performativo trasmesso in live streaming e poi reso disponibile on demand sulla piattaforma digitale niceplatform.eu, appositamente realizzata – e sulla quale sarà prossimamente ospitato anche l’archivio dei materiali multimediali di Cirko Vertigo.
È nata così la stagione di Solo in teatro, inaugurata lo scorso autunno, e che ha già visto muoversi negli spazi del Café Müller artisti, nazionali e internazionali, quali Jurij Ferrini e Paolo Oricco, Eugenio Allegri e Marigia Maggipinto. Teatro di prosa – ricerca e commedia dell’arte, tradizione rivisitata e sperimentazioni vocali – e danza contemporanea; le innumerevoli declinazioni del circo e della comicità così come della musica. L’obiettivo di Caterina Mochi Sismondi si rivela dunque non limitarsi a quello di “occupare” in qualche modo il proprio teatro, bensì, come accennavamo, sembra coincidere con una volontà di tratteggiare quello che è lo stato attuale delle arti performative, sempre più ibride e “sporche”, refrattarie a definizioni limitanti e, al contrario, disponibili a contaminazioni e prolifiche messe in discussione dei propri dogmi.
Si tratta ovviamente di un obiettivo ambizioso eppure necessario e che richiederà, al termine delle venticinque residenze previste, un’approfondita meditazione. Intanto, le sale del Café Müller continuano a ospitare gli artisti: l’ultimo è stato il poliedrico e cosmopolita Leo Bassi, circense, attore, comico… Ma come non è possibile indicare una nazionalità per questo maturo bambino di sessantotto anni – rivela di avere vari passaporti e dichiara che, in fondo, la sua vera patria è stata, fin dall’infanzia, il circo – analogamente eclettica è la sua identità artistica.
Nel docufilm che inaugura la serata a lui dedicata – trasmessa in diretta streaming il 13 febbraio e ora disponibile, per due anni, on demand – Leo Bassi ripercorre la propria eccentrica biografia di figlio d’arte, nato agli inizi degli anni Cinquanta in una famiglia di circensi da varie generazioni: fin da piccolo la sua esistenza è stata girovaga, fra gli Stati Uniti e l’Australia e l’Europa – fu tra i primi bambini a “volare” regolarmente fra le due sponde dell’Atlantico.
Bassi rievoca la sua progressiva presa di coscienza della necessità di rivitalizzare il vocabolario circense: un concerto rock e poi il Théâtre du Soleil rivelano al giovane artista due verità. La prima è che, per avvicinare la propria generazione al circo, sia necessario staccarsi da esso; la seconda, determinante per la successiva carriera di Leo, è che «si può fare circo anche in teatro», contaminando le arti e non perdendo mai di vista il fine primo dell’artista, ossia quello di fare riflettere – con serissima comicità – sulla contemporaneità.
Gli spettacoli che arricchiscono il repertorio dell’artista – da qualche anno residente a Madrid, dove, nel 2012, ha fondato una chiesa, El Paticano, in onore di pagliacci, giullari e liberi pensatori – costruiscono infatti una sorta di manifesto politico-esistenziale, un inno alla poesia e all’innocenza, all’essenzialità e alla gentilezza, in opposizione al rapace “neoliberalismo” di questi ultimi decenni. Un atteggiamento verso la vita simboleggiato dal papero di gomma – il “Dio Pato” – che è protagonista della performance realizzata da Bassi e significativamente intitolata Pandemia.
Il papero – sovrano anche della succitata chiesa madrilena dell’artista – è prediletto in quanto «non è aggressivo, è giallo quindi ottimista, è infantile e simpatico». Una divinità buona e ingenua, cui chiedere aiuto per contrastare la pandemia di Covid-19 – questa simboleggiata da una pallina di gomma verde della stessa forma del micidiale virus – ricorrendo a quella stessa pratica messa in atto nel passato, quando le pandemie erano considerate castighi divini, ovvero la processione penitenziale.
Ecco allora che Bassi, con un suntuoso abito settecentesco bianco e oro, guida per i portici attigui al Café Müller e fino alla stazione di Porta Nuova, una solenne processione, allo scopo di chiedere scusa al Dio Pato per il consumismo e per il neoliberismo e di invocare la sua misericordia, in particolare per i più fragili, da sempre il pubblico privilegiato dai “buffoni”, dai comici, che non possono certo «stare con il potere» ma lottare costantemente per «un mondo più gentile».
Bassi, tuttavia, non è gentile quando si tratta di denunciare le contraddizioni e le sperequazioni della contemporaneità, la sua colpevole ipocrisia: accomodato su un imponente trono circondato da tendaggi di velluto rosso, l’artista ricorre a un’immagine “schifosamente” escrementizia per descrivere la quotidiana realtà del nostro consumistico e cinico Occidente, che soltanto la poesia pare in grado di redimere. La performance, dunque, si conclude con un “atto poetico”: Leo Bassi, autodefinitosi “angelo dell’imperfezione”, si cosparge il corpo di miele e poi di piume, prospettando un volo – forse pindarico – verso una dimensione esistenziale magari apparentemente infantile eppure innocente e finalmente libera da virus esiziali – il Covid certo, ma anche l’egoismo e l’avidità.
Pandemia è dunque, per l’irriverente artista, un’ulteriore occasione per dispiegare la propria indisponente e testarda visione della vita – e dell’arte -; la propria autonomia di pensiero e la propria vena argutamente provocatoria; la dichiarazione di essere sì un buffone, ma mai un disciplinato buffone di corte. Ma, accanto a questa efficace riaffermazione della propria idea di società e di umanità, Bassi dice alcune importanti verità sui teatri: paragonando la differente politica adottata in Italia e in Spagna, dove le sale sono rimaste aperte malgrado il Covid, spiega come il pubblico spagnolo viva ora il teatro con maggiore e più consapevole intensità, riconoscendolo come una imprescindibile “priorità” nella propria esistenza. E, ancora, muovendosi nello spazio vuoto del Café Müller, rivela come la sua non sia una condizione di totale solitudine: i fantasmi degli spettatori che in quella sala sono transitati – persino quando era ancora un cinema porno, prima della chiusura e della ristrutturazione – palpitano e respirano appassionatamente. Il teatro, insomma, non muore davvero mai…
PANDEMIA
di e con Leo Bassi
produzione Fondazione Cirko Vertigo
Teatro Café Müller, Torino
13 febbraio 2021
on demand su www.niceplatform.eu