ANTONIO CRETELLA | L’8 marzo di quest’anno arriva a ridosso di una settimana dominata dal dibattito sull’uso sessista delle parole. Due gli episodi di rilievo: da un lato Beatrice Veneziani, prima donna a dirigere l’orchestra di Sanremo, che ha chiesto di essere chiamata direttore e non direttrice d’orchestra, inserendo in modo un po’ forzoso il termine, che non presenta un problema di declinazione, nell’annosa questione della féminisation, cioè sull’uso o meno della declinazione femminile per nomi che non l’avevano mai avuta in quanto designanti professioni per lungo tempo precluse alle donne. Una polemica sterile, in questo caso, essendo attestata da tempo la forma femminile del termine il cui uso non costituisce una diminutio del ruolo e delle capacità professionali di chi lo ricopre; e controproducente, come se per affermare la propria credibilità come professionista sia necessario mascherarsi in panni maschili come Giovanna d’Arco o George Sand. Si sperava che quei tempi fossero finiti.
La seconda querelle, ancora più perniciosa, riguarda la petizione di un nutrito stuolo di intellettuali per l’espulsione dal vocabolario di termini sessisti. E qui si rasenta l’idiozia: un vocabolario registra in modo oggettivo i mutamenti della lingua, così come un’enciclopedia medica registra segni, sintomi e cause delle malattie. Cancellare l’herpes dai manuali di dermatologia non comporta la sparizione della malattia dal mondo reale, ma anzi, potrebbe contribuire a diffonderla poiché il medico si troverebbe a non riconoscere una malattia mai studiata. Togliere dal vocabolario parole “pericolose” non cancella l’uso sessista, omofobo o razzista delle parole, che viene molto prima della loro pura e semplice registrazione. In tal modo, semmai, si va a mutilare uno strumento di conoscenza che è fondamentale per comprendere le implicazioni sociali e storiche dei fenomeni linguistici e la costruzione di una consapevolezza linguistica, unica reale competenza in grado di arginare l’uso violento del linguaggio. Le storture della lingua, riflesso delle storture del pensiero, non si curano negandole, nascondendole sotto terra come «parole struzzo», per usare una splendida immagine di una poesia di Viola Amarelli, ma conoscendole nei dettagli come un buon medico conosce a fondo le malattie.
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