L’incognita amara del dopo
di Giulia Arena
La mamma sta tornando, povero orfanello, testo di Jean Claude Grumberg nella traduzione di Giacoma Limentani, è lo spettacolo proposto da Dario Marconcini e Giovanna Daddi al Teatro Francesco di Bartolo a Buti (Pisa) nel novembre del 2019, per la regia di Dario Marconcini e con la collaborazione di Stefano Geraci.
Si apre il sipario e lo spettatore si lascia coccolare dalla ninna nanna intonata dalla cantante Viviana Marino, che veste un abito lungo di velluto scuro accompagnata dalla sua chitarra. Sarà la stessa cantante, seduta in proscenio (ora da spettatrice ora da narratrice esterna), a scandire il passaggio delle scene, intonando delle canzoni in francese. Unica eccezione l’intermezzo durante il quale una musica registrata fa danzare gli attori in scena come se fossero dei burattini, delle evocazioni fantasmatiche, in contrasto con la danza della cantante che è invece assai viva.
La scenografia appare scarna, così come il testo, privo di didascalie: un pavimento geometrico dallo stile anni ’50 sul quale si dispone, al centro, una panchina, simile a quelle delle sale d’attesa degli studi dei medici. Qui siede l’orfanello (Dario Marconcini) illuminato da una luce azzurrina; in fondo a sinistra, invece, su un piano sopraelevato, vi è la madre (Giovanna Daddi) su una sedia a dondolo e con un bambolotto ai piedi. La luce, a bassa intensità, risulta molto cupa e si concentra sugli attori con toni freddi. Sul finale però un bagliore più caldo proietta sullo spettatore il primo piano dei protagonisti. Per quanto concerne i costumi, il povero orfanello indossa un pigiama di colore grigio neutro e la madre è vestita di bianco.
Lo spettacolo ha una struttura a tappe: ricorrente è la presenza della mamma, che se all’inizio sembra assumere i tratti della madre cattiva che è solita rimproverare la prole, col susseguirsi delle azioni tende a sciogliersi, diventando più calorosa e, appunto, materna. La donna dà un senso di staticità rimanendo per tutta la durata dello spettacolo sulla sua sedia in scena frontale. Il suo rapporto di prossemica col figlio può ricordare la tipica “distanza pubblica” pur istituendo, nei dialoghi, un legame personale molto intimo
A imprimere una certa dinamicità alla trama drammaturgica contribuiscono i vari personaggi che l’orfanello incontra, interpretati da Emanuele Carucci Viterbi, inizialmente nelle vesti di Dio, poi di anestesista, dopodiché di direttore della casa di riposo e infine nei panni del padre. A guidare l’azione scenica non è tanto, o comunque non è solo il desiderio dell’orfanello di trascorrere una domenica con la sua mamma, mangiando pietanze gustose, quanto piuttosto il replicarsi ossessivo di un medesimo e battente interrogativo del figlio: che cosa succede dopo, nel rapporto fra madre e padre? Un quesito privo di risposte.
Una domanda, questa, che potrebbe apparire ingenua. Ma è stato lo stesso Dario Marconcini, (che basa la propria recitazione sulla continua ricerca di punti di riferimento, in modo da aprire il personaggio anziché chiuderlo), a ricordare – nel corso di un incontro telematico con gli studenti dell’Università di Pisa per il ciclo SCRITTURE SULLA SCENA – che si è orfani a qualsiasi età, anche a sessant’anni. Con un urlo di munchiana memoria si conclude questo interessante spettacolo, che ripiomba alfine nel buio più pesto.