LAURA BEVIONE | La riapertura delle sale – tanto improvvida quanto benvenuta – ha permesso a teatri nazionali e Tric non soltanto di accogliere nuovamente il proprio pubblico ma anche di fare debuttare gli spettacoli progettati e provati durante i mesi di chiusura. Così la Fondazione Teatro Europa ha riaperto martedì scorso il proprio spazio cittadino, il Teatro Astra, per ospitare una sua nuova produzione, allestita nei mesi passati e ripresa in vista dell’inatteso debutto la settimana passata: si tratta di Sorelle, testo scritto dal francese Pascal Rambert che, com’è sua prassi, ne ha anche curato la regia, in modo da operare quei piccoli-grandi cambiamenti generati dalla nazione e dalla città in cui si trova a lavorare e, in primo luogo, dalla personalità delle sue interpreti – in questa prima edizione italiana, Sara Bertelà e Anna Della Rosa.
La scena – volutamente spoglia e squintata – è una sorta di ring: un telo bianco a ricoprire la piattaforma che occupa quasi per intero il palcoscenico e, sull’angolo in alto a destra, una tribuna da conferenze, un appendiabiti e due pile di sedie di plastica colorate che, a un certo punto dello spettacolo, una delle due protagoniste – Sara – inizierà con zelo forsennato a disporre. Una scena essenziale, lungo le quali le due protagoniste si muovono lungo traiettorie che mai si incrociano e, soltanto per brevi frangenti, si avvicinano: una prossemica che immediatamente rivela la natura tutt’altro che pacificata della relazione fra le sorelle, cui Rambert attribuisce i nomi delle interpreti, immaginando che le due abbiano trascorso l’infanzia proprio a Torino, nel quartiere di San Salvario.
Una “contestualizzazione” che, in verità, nulla aggiunge – né tanto meno approfondisce – alla spietata radiografia di una famiglia indiscutibilmente alto borghese – secondo il gergo ora in uso, decisamente radical chic – sviluppata in scena: Sara e Anna – che, nell’edizione francese, erano Marina e Audrey, nomi di battesimo delle due interpreti, di cognome rispettivamente Hands e Bonnet – sono figlie di un archeologo e di una scrittrice; hanno trascorso lunghi periodi in Medio Oriente per seguire le spedizioni del padre e da questi viaggi hanno maturato tanto una giustificata insofferenza verso la “maledetta geopolitica” quanto una qualche consapevolezza sessual-sentimentale.
Sara è stata un’ottima e ineguagliabile nuotatrice, sviluppando un’invidiabile “struttura ossea”, mentre la sorella minore Anna, meno atletica, si è concentrata sugli studi e sull’assistente del padre, un certo Ugo, che sposerà malgrado – o forse proprio a causa di – il sostanziale disprezzo verso di lui dei suoi familiari, che considerano il giovane uomo banale e non sufficientemente brillante. Nell’oggi della pièce Sara convive con Isabel e si occupa con zelo di volontariato – lo scontro con la sorella avviene proprio nella sala in cui lei si appresta a tenere una conferenza di sensibilizzazione sui problemi dei migranti – mentre Anna è diventata giornalista, una donna sempre in giro per il mondo.
La madre delle due, assistita da Sara, è morta da poco, senza che Anna potesse darle l’ultimo addio ed è proprio questo l’innesco dello scontro fra le due: la più giovane accusa la maggiore di non averla avvertita e, dunque, giunge come una furia, con un trolley bianco che pare allo stesso tempo arma e corazza, sul luogo di lavoro della sorella.
Quelli che si susseguono sul palcoscenico-ring sono allora accorati e rabbiosi monologhi, scagliati quali frecce appuntite l’una contro l’altra: un vero e proprio duello che, anziché il corpo – anzi, le due donne rimangono sempre distanti l’una dall’altra – coinvolge mente e cuore. Anna e Sara rievocano infanzia e giovinezza, sottolineando come il reciproco astio abbia origine fin dalla nascita della secondogenita, che la maggiore avrebbe tentato più volte di strozzare nella culla…
Le due sorelle sottolineano con spietatezza limiti e viltà, scelte esistenziali sbagliate e ipocrisie l’una dell’altra, rivelando di conoscersi molto più profondamente di quanto avrebbero la sincerità di ammettere. E, non solo: il loro argomentare serrato e linguisticamente raffinato, a tratti compiaciutamente sofistico – in particolar modo nel caso di Anna – evidenzia per paradosso l’irresolutezza e l’immaturità sentimentale delle due, abili nel celare sotto una sintassi e un lessico curatissimi l’incomprensione verso sé stesse.
Le due interpreti – entrambe pantaloni neri e maglia bianca, una “neutralità” che occhieggia alla indeterminatezza delle rispettive personalità – attribuiscono ai propri personaggi forza nervosa e impeto, infantilismo rabbioso e accenni di languido sentimentalismo, impegnandosi in una prova attorale che richiede forza e concentrazione costanti così come una dose di empatia che, al termine, lascia estenuate. Lo spettacolo, infatti, concede nei suoi novanta minuti appena cinque minuti di quiete – apparente – alle protagoniste, quando, eccezionalmente vicine, l’una di fronte all’altra, condividono gli auricolari per ascoltare insieme una canzone, abbandonandosi a qualche catartico passo di danza.
Ma non si tratta che di un momento di tregua, poiché la crepa fra le due non soltanto si è originata troppi anni prima ma, con il trascorrere del tempo, si è inesorabilmente ampliata, rendendo vano qualsivoglia tentativo di sanarla: Rambert, d’altronde, fin dall’inizio scoraggia implicitamente lo spettatore a sperare in un lieto fine. Non ci può essere riconciliazione né consolazione allorché ci si impedisce di osservarsi davvero e di mettersi in discussione e, dunque, un catartico abbraccio finale fra Anna e Sara sarebbe risultato fastidiosamente falso. Poiché, sembra dirci con intelligente spietatezza Pascal Rambert, è la vita vera quella che lo specchio del palcoscenico restituisce, non le favole…
SORELLE
Testo, messinscena e spazio scenico Pascal Rambert
Traduzione italiana di Chiara Elefante
Con Sara Bertelà e Anna Della Rosa
Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts
Torino, Teatro Astra, 4 maggio 2021