ELENA SCOLARI | Nominato direttore al Teatro Nazionale di Genova nel gennaio 2020, Davide Livermore è un vulcano di idee, in questo anno difficile ha realizzato un sipario virtuale attraverso il sito e i canali social, incontri e dialoghi su facebook, spettacoli in streaming, Inside delle prove, Teatro in classe via zoom, videoracconti, tour virtuali dei teatri, la mostra performativa Edipo: io contagio, realizzata con la curatela di Margherita Rubino e Andrea Porcheddu, attuale dramaturg del Teatro. E poi i podcast di Cento giorni con Dante, le live performance di Happy Theatre Hour in streaming e i radiodrammi di Onde Teatrali. Livermore è stato attore, insegnante, sceneggiatore, coreografo, scenografo, costumista, direttore della fotografia, oltre a esibirsi come cantante lirico nei più importanti teatri del mondo.
E ora in pentola bollono nuovi spettacoli (La congiura del Fiesco a Genova di Schiller) e un G8 della Cultura per festeggiare lo scoppiettante 70° compleanno del Teatro genovese. Ho intervistato il direttore per parlare non solo dei progetti venturi ma della sua idea di direzione, di teatro e anche di arte.
Sono appena finite le repliche della sua regia di Grounded con Linda Gennari e testo di George Brant, in scena al Teatro Ivo Chiesa (ne parleremo diffusamente a breve), in cui una donna-pilota sgancia bombe tramite un drone. Cosa pensa del trasportare in teatro la peggiore cronaca dei nostri giorni?
Ho letto ieri un’intervista a Natalia Aspesi in cui dice qualcosa che mi è piaciuto moltissimo: “Nessuno può negarmi di imbracciare un kalashnikov. Sono vecchia, sono sola e ho tutto il diritto di fare una strage – e al giornalista, un poco irrigidito – : non sia noioso, la prego, mi faccia almeno sognare”.
Dobbiamo portare anche le brutture, in teatro, certo! Forse qualcuno vorrebbe riscrivere Carmen per non farla morire alla fine del primo atto perché mostriamo un femminicidio? Come non deve morire?! Dobbiamo vedere gli orrori proprio perché dobbiamo educare all’affettività: Carmen è vittima di un delitto efferato, nella vita queste cose avvengono e dobbiamo andare in fondo alle situazioni. E questo lo può fare il teatro.
Schopenhauer sostiene che la conoscenza grazie alla quale contempliamo la vera essenza del mondo sia l’arte: l’arte ferma nell’opera le cose del mondo e le offre – nitide – alla nostra osservazione affinché muovano la nostra volontà. Cosa ne pensa?
Il teatro non ha mai smesso di dire e mostrare. Per usare un paragone con le serie tv oggi tanto amate, il teatro è Black mirror: decontestualizza un fatto, lo mette di fronte alla gente affinché prenda una posizione. Dobbiamo far ricadere nella vita quello che hanno visto, non per un fatto educativo ma perché far scorrere le idee è militanza: il teatro deve suggerire interrogativi in relazione a ciò che succede in scena.
Oggi manca il dubbio, siamo talmente desiderosi di soluzioni precostituite che caschiamo nella Wikipedia della cultura o degli aforismi. La vita è molto più grande, non è un momento in cui possiamo adagiarci sulle formulette preconfezionate: alla fine ci sarà un rutto primordiale in cui faremo piazza pulita perché abbiamo bisogno di verità, di bellezza, di un senso autentico del valore della vita e a volte la vita e la verità si manifestano con brutalità. Se il teatro si accontenta di fare precotti fa entertainment nel senso deteriore del termine, e questo non riguarda il teatro pubblico, che deve invece prendere l’anima dello spettatore.
In cosa le riscritture possono essere “difettose”?
Il teatro deve portare a un piano di realtà, non può essere “il gusto dell’estate”. Nell’opera, da Tokio a Sidney il tempo musicale giusto è uguale dappertutto, l’intonazione è quella, non c’è la supercazzola del gusto (stilistico) del momento, bisogna saper restituire il personaggio. Una riscrittura è nel 90% dei casi qualcosa di più intellettuale che autentico, più furbo che di valore. Aspetto il monologo di Macbeth e arriva una canzone rock, siamo sicuri che sia la via giusta?
Nell’opera si usa il verbo buare – che vuol dire fare “buuu” – la comunità del teatro di prosa italiano non lo conosce perchè non si fa! E non si fa perché non conosciamo più l’alfabeto teatrale, non aspettiamo più l’attore al monologo: per 400 anni abbiamo aspettato il monologo dell’Amleto e ora si ri-scrive tutto. Nella lirica io non mi permetto di tagliare nemmeno una battuta sennò Rossini mi compare in sogno per punirmi!
Io vorrei vedere la regia, è con quella che si può dare una lettura nuova.
Mi domando come mai noi dell’opera conosciamo Amleto a memoria (forse non tutti, n.d.r.) e un attore non ha mai visto Traviata. Il teatro italiano è Verdi e Puccini, riprendiamoci il teatro italiano. Avere un rapporto con la memoria vuol dire creare un rapporto con la propria identità e soprattutto significa creare un futuro. Non dobbiamo sentire la lingua come un limite: si è girato il mondo con il teatro italiano, perché il lituano sì e l’italiano no?
Bé, però la Lituania ha avuto Nekrosius e con lui, lingua o non lingua, era la fantasmagoria scenica di un regista eccezionale a superare i confini.
Certo, Nekrosius ha fatto cose straordinarie e la sua lingua non è mai stata un limite ma a maggior ragione non deve esserlo l’italiano che ha una musicalità unica. Una volta all’estero si studiava l’italiano sui libretti d’opera.
Sergio Tofano nel suo libro Il teatro all’antica italiana (ed. Adelphi) racconta di quando nell’anteguerra il teatro era davvero popolare, ci andavano tutti e contestavano o osannavano il primo attore al suo monologo/cavallo di battaglia e discutevano poi accaloratamente dell’interprete preferito, perché non è più così?
Non facevano le riscritture, allora! C’è un bellissimo corto cubano, Utòpia (di Arturo Infante), in cui due giocatori di domino discutono in una fetida taverna dell’Avana. Il primo (riporta Livermore in spagnolo):
“Parli del tedesco? Il tedesco è una merda, non sa fare il teatro vero”
“Ma come no? Il tedesco è meraviglioso”
“No, no, a me piace l’italiano”.
Si prenderanno a coltellate, alla fine: uno era per Wagner e l’altro per Verdi.
Poi cambio e due giovani donne sono dalla pettinatrice:
“A me la greca non piace per niente, non capisco il suo modo di interpretare, l’italiana sì che ha carisma”
“Ah no, non sono per niente d’accordo, la greca è fantastica”.
La prima era per la Callas e l’altra per la Tebaldi. Ecco, mi piacerebbe molto che queste discussioni avvenissero per il teatro.
Questo manca di più nel teatro italiano che altrove?
Guardi, nella prosa di altri paesi ci sono contesti che hanno creato star. Il teatro italiano non lo fa più da trent’anni e mi chiedo perché. Io voglio produrre star. Se Linda Gennari fosse americana sarebbe su Variety magazine dopo la prima recita.
In Italia ha spesso prevalso il gusto del flavour ma il teatro italiano è pieno di valore e talento, e il talento è la capacità di imparare.
La creazione di star potrebbe dare più risalto al teatro in generale?
Eccome! Quando mi hanno chiamato per fare la regia del gala del 7 dicembre 2020 per l’inaugurazione della Scala (Livermore vi aveva già diretto Attila e Tosca e avrebbe dovuto lavorare alla Lucia di Lammermoor nel 2020, n.d.r.), ho cercato di creare un fatto televisivo decente. Il programma – già stabilito – era, diciamo così, eterogeneo. Ne sono uscito inventando qualcosa in cui la prosa e gli attori italiani sono andati in mondovisione, venti milioni di persone li hanno visti. Credo di aver reso un servizio al settore.
Dalla ribalta della Scala di Milano aveva però gioco facile.
Sì, ma io intanto l’ho fatto. Quanti altri l’avrebbero fatto? È un’attenzione che io ho avuto, un’azione concreta per creare – o facilitare – un contesto, una rete grazie alla quale mostrare la prosa italiana nel mondo. Bisogna aprire lo sguardo all’internazionalità, a partire dalle scuole, e le grandi istituzioni culturali come La Scala hanno il dovere di farlo.
Forse mancano i maestri, oggi? I giovani, durante la pandemia hanno mostrato un’obbedienza stupefacente, come mai non si sono ribellati all’ordine imposto?
Ah, se dal 1984 (quando io ero 18enne) fossi stato catapultato per magia a oggi, sarei in galera. I nati dopo il 2001 sanno di vivere con le telecamere di controllo, per me sarebbe stata una cosa folle. Le penitenze per cui ci si doveva arrampicare su una statua equestre e baciare i coglioni al cavallo, oggi quali conseguenze avrebbero?
Dobbiamo rinvigorire il valore rivoluzionario delle idee, del senso militante di azioni ora negate dalla società e che possono invece essere mostrate in teatro, i gesti dell’anima. Moti di ribellione, azioni perdenti o vittoriose, si deve mostrare la vita in tutta la sua forza, in teatro. In teatro si può restituire vita alle persone.
Stiamo vivendo giorni cruciali, è un momento storico fondamentale per la vita e il futuro del teatro italiano.
E come risorgere?
Tremonti e il suo “Con la cultura non si mangia” ha dato la stura alla disgregazione del sistema culturale, i tagli sono stati resi possibili, nessuno si è ribellato. Ma noi del settore abbiamo fatto un lavoro oscuro, siamo sopravvissuti e questo è già straordinario.
Non siamo obsoleti! E ne abbiamo le prove: uno studio dell’Università di Bologna ci dice che ogni euro investito in cultura ritorna 6 volte. La cultura è un valore aggiunto straordinario per il rilancio delle città e per la vivificazione di luoghi che possono diventare turistici.
Lei è combattivo!
Io credo sia doveroso esserlo, soprattutto se si gestiscono soldi pubblici, il denaro deve ritornare al pubblico nella forma più glamour, più alta, basta con l’autoreferenzialità del nostro sistema.
Quando decide di realizzare uno spettacolo, pensa prima al pubblico o al suo desiderio di volerlo mettere in scena?
La soddisfazione mia non esiste. Io non ho opere o autori preferiti. Non ho un gusto. Non posso averlo, altrimenti starei in una comfort zone e non è la posizione dell’artista. Mi hanno insegnato a servire l’arte. Ho un’estetica, questo sì. Quando decido di mettere in scena un testo ho una mia estetica della recitazione e della creazione dello spazio scenico ma non perché mi piacciono: c’è quello che funziona e quello che no, cosa piace a me non deve interessare a nessuno. Io per bello intendo coerenza di narrazione, la ricerca dell’anima mundi, fondamentale per chi fa questo mestiere.
Quali sono i pilastri che distinguono il suo teatro e la sua direzione a Genova?
Uno: la restituzione dei testi. Bisogna avere rispetto di chi scrive e rischia, quindi curare la drammaturgia contemporanea nel modo più attento e feroce perchè racconti la società, il quotidiano. Bisogna far sognare il pubblico, farlo riflettere, disperare, provocarlo. Due: la commissione di testi: il Teatro di Genova ha commissionato otto testi a otto drammaturghi dei paesi del G8 del 2001 per il progetto G8 della Cultura. E tre: l’epica. La nostra epica è la fantascienza. Durante la mia direzione voglio tenere un rapporto filologico con le traduzioni di testi, la fantascienza può essere un ambiente di restituzione epico del teatro. Con Solaris (appena andato in scena al Teatro Gustavo Modena, n.d.r.) il regista Andrea De Rosa ha compreso perfettamente questo intento.
Riguardo ai giovani, poi, in ogni nostra produzione mettiamo a bando alcune parti. Questo dovrebbe essere sistematico per il teatro pubblico, prevedere ruoli aperti per le audizioni.
Non si è scoraggiato, in questo lungo periodo di chiusura, arrivato poco dopo il suo insediamento?
Inizialmente sì, come tutti, ma mi sono dato subito da fare: l’estate scorsa abbiamo girato la Liguria e Genova con TIR – Teatro In Rivoluzione. Abbiamo creato uno spazio alternativo con un vero tir. Quando hanno chiuso i teatri siamo andati nei musei e abbiamo fatto la mostra performativa Edipo: io contagio (visitabile fino al 28 maggio a Palazzo Ducale). Allestendola abbiamo dato da mangiare alla comunità tecnico/artistica.
Ho seguito il mio maestro Giuseppe Verdi: guardava la moglie appena morta e si è detto O frigno o scrivo Va’ pensiero. E ha scritto Va’ pensiero. Non si piagnucola, si trovano gli spazi per rompere i muri.
L’artista svizzero Jean Tinguely diceva Le rêve c’est tout, la technique ça s’apprend (Il sogno è tutto, la tecnica si impara). È d’accordo?
Il sogno è quello che muove, certo. Poi bisogna mettere il sogno in relazione con un piano di concretezza della realtà. Dobbiamo invadere l’immaginario delle persone e della società. E tutti devono capire per fare l’attore bisogna studiare. Il jazzista improvvisa quando ha una tecnica e una coscienza profonda della disciplina, che ti rende libero in relazione con la creatività.
Parliamo della relazione tra musica e teatro, vista la sua origine ‘lirica’ come vede il rapporto tra i due elementi?
Non concepisco il teatro di prosa senza un compositore. Questo connubio si è perso anche per questioni economiche. Comporre musica per il palcoscenico significa creare uno sforzo intellettuale congiunto, un flusso ‘storico’ e dunque un’identità. Il ritmo di un monologo crea una musica che è il tempo dell’anima.
Il premio Oscar Nino Rota scriveva per il teatro di prosa. Avremmo bisogno di un Oscar perché crea la star e sotto la star c’è un movimento fatto da migliaia di persone. Non dovremmo farci vincere dalla spocchia: se riuscissimo a entrare con la durlindana nel campo di battaglia potremmo invadere altri ambiti – anche quello dello show-biz – e farlo con la grazia, l’intelligenza e l’ironia proprie di chi è a contatto con la bellezza.
Forse lo show-biz è più dell’opera che della prosa, anche per i denari a disposizione. Lei che conosce entrambi gli ambiti crede che l’antagonismo sia insuperabile?
Patisco molto il fastidio e la distanza tra opera e prosa. L’opera è il teatro italiano, e questo è un dato anche se non accettato dai colleghi. Il nostro Shakespeare è stato Monteverdi. Ci si perde un pezzo di storia italiana, l’opera fa parte di noi come Goldoni o la pietà di Michelangelo. La prosa deve capire che l’opera non è un papà cattivo che succhia i soldi ma un partner con cui fare progetti. Nella musica c’è attenzione a servire la parola, è l’armonia al servizio della poesia.
In Italia c’è la tendenza a inscatolare tutto in compartimenti distinti, è anche questo che non aiuta la permeabilità tra le arti?
Compartimentare è un’offesa alla vita, al senso più profondo della creatività. Studiare le arti rende liberi, aiuta a guardare diagonalmente i temi della società. Nell’interazione si crea il massimo della bellezza, Visconti diceva Non possiamo essere liberi senza disciplina.