ILENA AMBROSIO | Ah, le principesse e le loro fiabe! Quanti sogni che son desideri di felicità hanno alimentato, quali immaginari di vite felici e contente, quante aspettative! Chissà se l’avrebbero immaginato, le principesse, che una di loro, quella che era stata capace persino di sconfiggere la morte con l’amore avrebbe subito una rilettura, vogliamo dire “originale”? della sua storia.
È notizia circolata ampiamente nei giorni scorsi: il principe ha abusato di Biancaneve nel baciarla mentre lei era inerme e, quindi, non consenziente. Il vero amore? Un sopruso, se uno dei due è privo di coscienza! A sostenerlo sono Julie Tremaine e Katie Down, giornalista nello SFGATE di San Francisco nella recensione alla rinnovata attrazione di Disneyland dedicata alla fiaba, Snow White’s Enchanted Wish.
A destare la perplessità delle due croniste è proprio la scelta di aver preservato, in un “evolutissimo” 2021, la scena di un bacio estorto e, quindi, di una molestia. «Non siamo tutti d’accordo – aggiungono – che insegnare ai bambini che baciarsi, quando uno dei due non è consapevole, non va bene?».
Ora, che negli ultimi anni si sia acuita l’attenzione alla molestia e alla violenza, anche nelle forme comunemente concepite come frivole e leggere, è certamente cosa buona e giusta, ma da qui ad accusare il principe azzurro di essere un molestatore ce ne passa, o no?
Eppure nel 2017 – e sempre in ambito anglosassone – era già stato Filippo, innamorato di Aurora alias la bella addormentata, a essere accusato di “allungare un po’ troppo le mani”. E non è tutto. La stessa casa Disney ha rimosso alcuni dei classici dal suo catalogo, vietandoli ai minori di sette anni perché veicolanti messaggi razzisti: Peter Pan perché chiama gli indiani “pelle rossa”, Dumbo perché i corvi neri, suoi compagni di volo, appaiono come inequivocabili caricature dei lavoratori neri di piantagione; Il Libro della Giungla perché l’orangotango è doppiato con una voce che ricorda eccessivamente quella delle blackface; Gli Aristogatti perché i perfidi siamesi dagli occhi a mandorla sono cliché razzisti; Lilli e il Vagabondo perché il canile pullula di cani-cliché con accenti stranieri da barzelletta.
No, non è uno scherzo!
La decisione, così come le polemiche “principesche”, si inseriscono nella recente tendenza a mettere in discussione il passato alla luce delle – presunte – conquiste moderne in termini di diritti civili ed emancipazione da pregiudizi e razzismo, e che ha spopolato con il caso Via col vento, scoppiato proprio un anno fa sull’onda delle manifestazioni per George Floyd. La storica pellicola – che vanta ben 80 anni e otto premi Oscar, tra cui quello a Hattie McDaniel/Mami, prima afroamericana a vincere un Oscar come attrice non protagonista – è stata rimossa dalla piattaforma di streaming Hbo Max in quanto «dipinge alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che sono diventati, sfortunatamente, comuni nella società americana». È innegabile, Via col vento è impregnato di razzismo e restituisce un’immagine romanticizzata dell’era della schiavitù al Sud; a volerla dire tutta, il 15 dicembre 1939, Hattie McDaniel non poté partecipare alla prima del film perché c’erano ancora le leggi Jim Crow nel Sud degli Stati Uniti ed era persino seduta lontano dai suoi colleghi la sera degli Oscar. Ma quanto sconvolgenti sono questi dati riferiti a un film ambientato nelle piantagioni di cotone durante la guerra civile americana e a un momento storico in cui ancora vigevano leggi di segregazione razziale? Censurare una verità storica è davvero la strada da preferire a una sua corretta contestualizzazione e, semmai, a un’osservazione critica?
La violenza sulle donne e il razzismo sono abomini della nostra società, e questo è un assunto inopinabile, ma queste vicende mediatiche sembrano superare il confine tra la giusta condanna e un inutile se non addirittura ridicolo integralismo.
A ben vedere questo trend di “revisione censurante” si colloca sotto l’egida di sua maestà il politicamente corretto che sbandiera come vessillo una presunta modernizzazione del senso comune rispetto a temi sociali come l’uguaglianza di genere, l’antirazzismo, l’antiomofobia, ma conduce battaglie spesso solo superficiali, a volte anche tristemente contraddittorie.
Pensiamo agli spot pubblicitari, specchio quanto mai eloquente degli usi e costumi di una data società in un dato tempo.
Nell’ultimo anno hanno spopolato réclame a sostegno dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione femminile da stereotipi e luoghi comuni. Ma perché – e se lo chiede una da donna – deve essere la marca di un assorbente a compiere «un passo avanti» verso quell’affrancamento, mentre prodotti da barba vengono pubblicizzati da un macho che è il «king del suo mondo»? Se ci fosse davvero una volontà sostanziale e non solo formale di perseguire la strada verso una reale parità di genere, sarebbe forse più efficace che fosse la casa produttrice di un prodotto per uomini a schierarsi. Ancora, cosa apportano alla causa un’adolescente che parla liberamente del proprio ciclo mestruale con i suoi coetanei maschi, una donna avanti con l’età che, con nonchalance, dichiara di essere incontinente ma di amare le mini gonne, vulve canterine o giovani donne che addentano torte al cioccolato perché hanno il ciclo? In che modo l’ostentazione di una sfera profondamente intima coincide con l’affermazione del sacrosanto diritto di una donna di essere considera al pari di – non uguale a – un uomo?
Difficile, a questo punto, non pensare alla campagna portata avanti da chi vorrebbe rendere la lingua italiana più inclusiva e rispettosa delle differenze di genere tramite la sostituzione del maschile plurale generalizzato con espedienti come: asterischi, vocali neutre, x, y, under score, fino al gettonatissimo schwa.
In Francia, nel 2017, fu lanciata una petizione contro la regola per cui «le masculin l’emporte sur le féminin», norma introdotta nella lingua francese solo dal Diciasettesimo secolo poiché, come motivarono i grammatici, «il genere maschile è il più nobile» (Liberté de la langue française dans sa pureté, Scipion Dupleix, Paris, 1651).
Non c’è dubbio, la convenzione linguistica per la quale un insieme di genere misto viene identificato con il cosiddetto “maschile non marcato” può risultare gravemente maschilista se si pensa che la lingua è – come infatti è – un riflesso della realtà con evidenti implicazioni sociali e politiche, che il significante è incontestabilmente segno esplicito del significato.
Ma sta proprio qui il punto: è la realtà che forma la lingua, non viceversa, e il sistema linguistico fa resistenza alle modifiche a tavolino, specialmente se quel tavolino ha piedi tutt’altro che stabili. Nessun asterisco o suono neutro può plasmare una realtà in cui le donne sono ancora sottopagate rispetto agli uomini, in cui gli eccessi di una mentalità ancora profondamente patriarcale hanno reso necessario coniare un nuovo termine – questo sì, aderente al reale –, il femminicidio, in cui stereotipi di genere sono ancora vivi e vegeti, incluso quello, tremendo, che attribuisce alla donna la responsabilità di una violenza. Una realtà, ancora, in cui “i gay ci stanno simpatici” ma non possono sposarsi e non meritano la benedizione della Chiesa; in cui, se in una trasmissione di attualità, si parla dei diritti LGBTQ+, gli autori fanno l’originalissima scelta di usare come musica del servizio i Village People. Si potrebbe andare avanti all’infinito…
Di fronte all’evidenza di una società ancora così profondamente retrograda, assuefatta a cliché e luoghi comuni che la tengono ben lontana dal concepire come semplice dato di fatto la parità di ogni suo singolo componente, il mito del politicamente corretto si fa solo ampollosa retorica, incapace di afferrare le criticità davvero urgenti del reale.
Si potrebbe dire che viviamo in un’epoca di ostinato ipercorrettismo. In linguistica il fenomeno dell’ipercorrettismo si verifica quando il parlante o scrivente si corregge sostituendo una forma che percepisce come sbagliata sulla base degli errori più comuni e frequenti, con un’altra forma, di fatto errata, nell’intenzione di avvicinarsi ai registri alti e di imitare lo standard. Ecco, molto di ciò che si ascolta o si legge in materia di etica e morale, sembra frutto un eccesso di zelo sotto il quale si nascondono lacune di livello molto più elementare. Il che suona un po’ come un gigantesco, ridicolo “habbiamo”.
E allora, come ha spiegato efficacemente lo psicanalista Claudio Risé durante la trasmissione Anni20 di Rai2 – la stessa dei Village People, tra l’altro – si tratta di fare una scelta: da un lato il politicamente corretto con tutto il codice di falsità che si porta dietro, dall’altro l’autenticità umana, che è una cosa bene diversa per la quale il principe azzurro è un rappresentate del maschile buono, persino un amante che salva.