LAURA BEVIONE | La fantascienza è ormai un genere meno frequentato rispetto a un passato in cui appariva inimmaginabile quell’incredibile accelerazione tecnologica che oggi ci porta a giudicare sbiaditi e ingenui i visionari paesaggi futuri tracciati dagli autori del secolo scorso. Forse non è un caso, allora, che il più recente film di fantascienza uscito nelle sale – Ad Astra (2019), diretto da James Gray con protagonista un tormentato e anaffettivo Brad Pitt – concentrasse la narrazione più sulle inquietudini e sugli interrogativi esistenziali dei personaggi che sulla descrizione di futuribili stazioni spaziali lunari e viaggi verso Marte e fino al lontanissimo Nettuno.
Si assiste, in realtà, a un ritorno alla natura più schietta e alla necessità originaria di un genere – letterario, poi cinematografico e molto raramente teatrale – che aveva e ha tuttora a che fare più con la filosofia che con le scienze; con la psicologia più che con l’evoluzione delle tecnologie. Immaginare di esplorare l’universo per sondare il mistero dell’anima umana; disegnare creature extraterrestri ovvero androidi per tentare di osservarsi in uno specchio non deformato né deformante.
Paradigmatico – e decisamente virato verso la riflessione filosofico/psicologica – è Solaris, l’ormai leggendario romanzo pubblicato nel 1961 dallo scrittore polacco Stanislaw Lem, maestro di una narrativa speculativa, in cui la fantascienza si intreccia indissolubilmente con il giallo metafisico e, soprattutto, con l’indagine filosofica, come testimoniano due suoi testi recentemente pubblicati in Italia – Febbre da fieno (ed. Voland) e L’invincibile (ed. Sellerio).
Proprio Solaris raccolse attenzione internazionale, grazie soprattutto all’imprescindibile e omonimo film diretto nel 1972 dall’analogamente visionario e introspettivo Andrej Tarkovskij – nel 2002 ci fu un nuovo, trascurabile, adattamento con la regia di Steven Soderbergh – che seppe tradurre in immagini e montaggio le inquietudini, gli interrogativi, i sentimenti, suscitati dal romanzo di Lem.
Un’opera letteraria e una pellicola cinematografica che esercitano tuttora il proprio enigmatico fascino, come testimonia l’adattamento teatrale realizzato dal drammaturgo scozzese David Greig, che debuttò nell’autunno 2019 a Edimburgo con la regia di Matthew Lutton, produzione del Lyric Hammersmith Theatre, con il Malthouse Theatre di Melbourne e il Royal Lyceum Theatre. Greig si mantiene sostanzialmente fedele alla trama del romanzo, scegliendo però di riequilibrare la distribuzione dei personaggi e sostituendo quindi all’universo totalmente maschile di Lem delle dramatis personae più bilanciate: in particolare, il protagonista, lo psicologo Kris Kelvin, diventa una donna e, dunque, anziché re-incontrare la moglie suicida Harey, rivede il suo giovane amante Rey. Rispetto al romanzo, poi, Grieg attribuisce maggiore, seppure non esclusiva né sproporzionata, evidenza al tema ecologico.
Monica Capuani – traduttrice e, soprattutto, appassionata ricercatrice di nuova drammaturgia in lingua inglese – riuscì ad assistere all’allestimento di Grieg/Lutton e subito pensò a una versione italiana, trovando poi nel regista Andrea De Rosa un complice altrettanto convinto della poliedrica attualità di Solaris. È nato così lo spettacolo, coprodotto dallo Stabile di Genova e dal Teatro di Napoli, che ha riaperto la stagione della sala genovese Gustavo Modena e che, rispetto alla versione di Grieg, registra un’ulteriore virata al femminile, poiché Rey, il giovane amante della protagonista Kris – interpretata da Federica Rosellini – diventa una donna – Giulia Mazzarino.
L’impianto scenico discende dal palco a metà della platea: sul fondo uno schermo rimanda la suggestiva rielaborazione, realizzata da D-Wok, delle immagini fornite dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Una sorta di scivolo degradante verso il pavimento e occupato, al centro, da una sorta di ampio letto/divano nero. Ai lati, gli “alloggi” degli altri due abitanti della stazione spaziale dove, all’inizio dello spettacolo, giunge, rinchiusa ermeticamente in una disagevole tuta spaziale, la protagonista Kris. Sono i due scienziati superstiti, interpretati rispettivamente da Sandra Toffolatti – nel suo angolo di palco una carrozzina, in cui dorme la sua “visitatrice”, la figlia che ha perso quando era ancora bambina – e da Werner Waas – nel suo “salottino” una nera figura di spalle, la madre defunta, guarda un vecchio film in bianco e nero – Solaris nella versione di Tarkovskij. Un terzo scienziato si è tolto la vita ma ha lasciato alcune testimonianze-video che intervallano e concludono lo spettacolo, offrendo allo spettatore l’incanto, allo stesso tempo rassicurante e perturbante, del volto e della voce di Umberto Orsini.
La nuova arrivata sulla stazione spaziale sospesa sopra l’immenso oceano che occupa il pianeta Solaris, scoperto circa cento anni prima e ancora gravido di enigmi sulla sua natura, avverte immediatamente l’atmosfera colma di inquietudine e trattenuta angoscia che abita quel luogo apparentemente sicuro. E durante la sua prima notte, distesa sul divano al centro della scena, ne scopre con spavento misto a professionale curiosità il motivo: accanto a lei si è distesa una creatura apparsa improvvisamente dal fondo della scena e che afferma di essere Rey, la sua giovane amante perduta…
La ragazza è la “visitatrice” di Kris: come gli altri membri della missione, la psicologa si trova a convivere con questa creatura, concreta eppure incorporea, capace di ripresentarsi anche dopo essere stata rigettata nello spazio. Un essere che non ha ricordi se non quelli che la stessa Kris, inconsapevolmente, le dona: Rey, come le visitatrici degli altri due scienziati sulla base spaziale, non è che una proiezione dell’inconscio, generata dalla stessa oscura forza che fa palpitare l’oceano di Solaris.
Il pianeta pare in grado di sondare gli antri oscuri dei terrestri, portandone alla luce sensi di colpa – Rey è affogata in mare, probabilmente un suicidio, dovuto anche al progressivo distacco da Kris, troppo occupata con la propria carriera accademica -, ma pure desideri e pulsioni soffocati, debolezze e paure. Il pianeta pone gli umani di fronte a uno specchio implacabile, mostrando loro quanto si agita nella loro mente e costringendoli a scegliere se assecondarlo – accettando dunque la presenza tutt’altro che discreta dei “visitatori” – oppure opporsi e soccombere – com’è accaduto allo scienziato suicidatosi.
Kris opta per la prima possibilità e, abdicando al proprio rigore di scienziata, si abbandona all’amore per Rey, forse per recuperare quel tempo che non aveva voluto offrirle quando era in vita… Ma la ragazza, malgrado la sua ectoplasmatica natura di agglomerato di neutrini, si ribella di nuovo a una decisione che non ha contribuito a prendere…
Andrea De Rosa, regista-filosofo, sa condensare questa trama in un allestimento allusivo e crepuscolare, disteso e rallentato, in cui anche le emozioni più intense sono attenuate così da acquistare, al contrario, maggiore ed esplicita consistenza. La calma rassegnazione dei due scienziati da più tempo sulla base spaziale – i misurati e razionalmente commossi Toffolatti e Waas – è, così, evidenza di una consapevolezza, certo non del tutto pacificata, delle ferite e delle incongruenze della propria mente.
Una conoscenza di sé cui giungono al termine dello spettacolo anche Kris e Rey – Rosellini e Mazzarino, persuasive e generose nell’incarnare il cangiante stato d’animo dei propri personaggi: concitate e sentimentali, spaesate e determinate, maturate e consapevolmente arrendevoli, coerenti a un disegno registico che concentra l’attenzione proprio sui moti centripeti dell’animo umano, riservando agli elementi di genere – quali tute spaziali e immagini dallo spazio – un ruolo ancillare, quasi un travestimento onirico, frutto di un super-io ansioso di impedire la vista di un abisso psichico tutt’altro che rassicurante.
La fantascienza, allora, diventa ancora una volta un mezzo per rivelare verità totalmente terrestri, anche a teatro…
SOLARIS
di David Greig
traduzione Monica Capuani
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
regia Andrea De Rosa
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
scena e costumi Simone Mannino
disegno luci Pasquale Mari
video D-Wok
interpreti Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas
Umberto Orsini in video
produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Di Napoli -Teatro Nazionale
Teatro Gustavo Modena
Genova, 9 maggio 2021