RENZO FRANCABANDERA | Anthony, 81 anni, vive da solo nel suo appartamento londinese. Rifiuta ogni tipo di assistenza che la figlia Anne cerca di affiancargli. Lei dopo una ennesimo confronto problematico, gli confessa che a breve non potrà più essere presente come è stata fino a quel momento: sta per trasferirsi a Parigi, per un nuovo amore. Ma poco dopo l’uomo si trova in casa colui che sostiene di essere il marito della donna, sposato con Anne da oltre dieci anni. Non solo: l’uomo, con fare poco cordiale, sostiene anche che quella non sia casa di Anthony, ma sua e della figlia. Eppure l’anziano è sicuro che quello sia il suo appartamento. Pian piano le certezze identitarie di Anthony sembrano sgretolarsi in una realtà che davanti ai suoi occhi si fa confusa: l’anziano cerca disperatamente di capire cosa stia succedendo.
L’imperdibile The Father – Nulla è come sembra, interpretato da un colossale Antony Hopkins è dal 20 maggio nei cinema italiani in lingua originale (con sottotitoli, visione che ancor più vi suggeriamo) e dal 27 in italiano (BIM distribuzione).
Dopo venti minuti di visione, qualsiasi spettatore appassionato anche di teatro farebbe la stessa considerazione che mi è nata spontanea: ma questa sceneggiatura sarebbe perfetta per uno spettacolo teatrale!.
E infatti lo è stata.
È tratta infatti dall’opera teatrale Il padre (Le père) scritta da Florian Zeller, andata in scena per la prima volta a Parigi nel 2012, conquistando il Premio Molière per la miglior commedia, prima di debuttare a Broadway e nel West End londinese, dove ha ottenuto Premi Tony e Olivier per il miglior attore (rispettivamente a Frank Langella e Kenneth Cranham).
Il film di Zeller con protagonisti Anthony Hopkins e Olivia Colman, premiato agli Oscar 2021 sia per l’interpretazione di Hopkins come miglior attore protagonista che per la migliore sceneggiatura non originale, vede proprio Zeller alla regia dell’adattamento cinematografico – il suo esordio nel lungometraggio – girato a Londra sulla sceneggiatura scritta a quattro mani con Christopher Hampton (Espiazione, Le relazioni pericolose).
La seconda considerazione che un appassionato di cinema e teatro farebbe, infatti, vedendo il film è: quale regista sarebbe così pazzo da girare un film ricevendo da uno sceneggiatore un testo del genere?
E infatti si capisce subito che questa operazione ha potuto darsi proprio in ragione della funzione unitaria e di continuità, rappresentata dalla figura di Zeller, fra testo e macchina da presa.
Non sono rari i casi in cui un’opera teatrale viene trasposta al cinema. Sono moltissime le celebri drammaturgie di prosa riadattate e poi finite sul grande schermo. Ma si tratta perlopiù di classici, in cui il teatro conserva i suoi naturali cardini drammaturgici unitari.
Qui il nucleo di interesse, al di là delle interpretazioni, sta proprio nella capacità di portare lo spettatore dentro la visione perturbata di Anthony, con una drammaturgia che rompe l’unità di tempo e luogo ritenuta caratteristica centrale del teatro, perchè costretta a seguire una mente in decadimento, in cui queste due dimensioni si liquefanno in modo improvviso e imprevedibile, mescolando il certo all’incerto.
La narrazione ben presto deve rinunciare a ogni linearità e certezza, per portare chi osserva, come pure il protagonista, in un sentimento di smarrimento totale davanti a una realtà che gli si decompone e frammenta sotto gli occhi senza possibilità di ricreare un centro unico di pensiero, di rassicurare se non altro con una trama intelligibile.
La vicenda cinematografica respira profondamente di teatro contemporaneo, di moltiplicazioni del punto di vista dentro lo stesso sguardo, di interruzione della linearità narrativa, ma con una tecnica che resta comprensibile, pur senza mai affermare. Persino il turbamento di Anthony non ha mai il nome di questa o quella malattia. È una delle tante, riferibile certo, ma senza mai un’etichetta banalizzante. E questo rende il film universale, porta lo spettatore a una tragica e dolorosa empatia: impossibile restare esterni.
Se con questa storia Zeller aveva sfidato i pilastri del teatro, la trasposizione filmica e il suo clamoroso esito testimoniano come il teatro abbia un potenziale davvero molto fecondo per la nuova cinematografia. Negli ultimi anni sono diverse le testualità frammentate portate in scena sul vecchio amato palcoscenico, potenzialmente interessanti anche per coraggiosi cineasti. I premi a questa creazione sono testimonianza di come ci possano essere molte strade per arrivare a esiti alti e inaspettati, con l’ardimento di superare i vincoli tradizionali.
Occorre un nuovo coraggio di sfidare gli impianti precostituiti, ciò che spesso banalmente viene ritenuto imprescindibile per questo o quel linguaggio.
E così pure il cinema rimanda al teatro uno stimolo al rinnovamento, a dare spazio alla nuova testualità, a osare ancora e oltre, e a immaginarsi davvero come medium trainante. Certo, nessuna avanguardia teatrale sarà mai mainstream, specie nella società delle serie tv, e nel momento stesso in cui lo diventasse, non sarebbe più di sfida. Ma la capacità di farsi e distruggersi che il teatro dentro se stesso vive da sempre, alimentandosi delle sue crisi, consentirebbe ai linguaggi mass mediatici (dei quali da ormai oltre mezzo secolo non fa evidentemente più parte) di immaginare nuovi altrove, altre strade percorribili.
E cosa importa se anche dal cinema torniamo poi a casa perturbati e sconvolti, un po’ come Anthony? Non è quello che per secoli gli amanti del teatro hanno chiamato catarsi?
Bello che il cinema lo abbia riscoperto.
E che sussurri al teatro di non mollare.
Alcune immagini di Le Père / La Comédie des Champs-Elysées nell’allestimento diretto da Ladislas CHOLLAT con Robert HIRSCH, Florence PERNEL, Jean-Pierre BOUVIER, Emmanuel PATRON, Elise DIAMANT, Sophie BOUILLOUX (en alternance), Marie PAROUTY (en alternance)