SILVIA ALBANESE | Hai rispettato (il più possibile) il coprifuoco. Ti sei rifugiata nel ricordo dell’ultimo spettacolo visto, dell’ultimo viaggio e dell’ultimo festival. Sentivi il fiato sul collo dell’imminente seconda chiusura dei teatri – con il secondo lockdown, quello autunnale – per questo viaggiavi il più possibile: la sete delle poltrone di velluto, del chiacchiericcio un po’ eccitato prima di entrare, di quello un po’ svuotato dall’imbarazzo o pieno di amore del dopo spettacolo. La birra, la cena nei posti in cui si può mangiare fino a tardi.
Milano, Parigi, Gorizia, Milano.
Un cerchio che si è chiuso su se stesso nell’autunno 2020, e che si è riaperto nella primavera tarda del 2021: una primavera che sembrava ancora autunno, mantenendo perciò un filo rosso di continuità con quell’ottobre che sapeva ancora della fine del mondo e coincideva con la fine di uno dei tuoi mondi possibili.
Da qui decidi di ripartire, con un po’ di nostalgia della lontananza: da FOG Triennale Milano Performing Arts (11 maggio-21 luglio 2021). Mercoledì 12 maggio, stupita di indossare ancora un cappotto, ricominci.
Distanziamento, e stavolta mascherine esclusivamente chirurgiche o ffp2 da indossare; ti viene vietato al teatro e al cinema di indossare la mascherina che vuoi, magari quella “da sera” tutta di paillettes o leopardata. Quella va bene sui mezzi, al supermercato, per strada, al parco, a fare l’aperitivo, ma non va bene se devi sederti al buio di una sala.
Il solito annuncio prima dello spettacolo, che non solo invita a spegnere i telefoni cellulari, ma anche a rispettare l’ordine nell’uscita: dalla galleria, come in aereo si esce per ultimi se si è più vicini al pilota, o al palco.
Are we not drawn onward to new erA della compagnia belga Ontroerend Goed (nome che si potrebbe tradurre con “immobile del sentire”) è uno spettacolo scritto in una lingua che ti sembra di non conoscere: un inglese palindromo meravigliosamente pronunciato da Angelo Tijssens, Charlotte De Bruyne, Maria Dafneros, Karolien De Bleser, Ferre Marnef, Michaël Pas.
La prima immagine che vedi è un piccolo albero con tante minuscole foglie verdi, a destra del palco, mentre a sinistra sul fondo un corpo è sdraiato in posizione fetale, dandoti le spalle. Ti chiedi se stia dormendo, sognando, e se si muove forse è perché non riesce a trovare una posizione comoda? Ti sembra un corpo smarrito. Ti accorgi che è una donna. Arriva un uomo, prende una mela che era poggiata sull’alberello, gliela offre, lei la mangia; conosciamo tutti questa storia, e la civiltà che si fonda su questa narrazione.
Un po’ alla volta arrivano altri tre personaggi, qualcuno piange, qualcun altro ti fa ridere. Ma il fulcro dell’attenzione è l’albero: viene messo in un vaso, poi viene staccata una fogliolina, poi un’altra, poi un ramo intero. L’albero viene torturato: una lotta all’ultimo ramo, non priva di dolore e sudore, ma alla fine l’uomo ha la meglio, e dell’albero resta ben poco. Il palco viene invaso da buste di plastica colorate piovute dal cielo, e il gruppetto si dà da fare per costruire – anche in questo caso non senza sforzo – un antropomorfo idolo gigante.
Tutto è scorso in un tempo lentissimo, nell’ascolto di un dialogo tra personaggi che emettono versi in una lingua sconosciuta e compiono azioni che tu non compiresti mai (compreso il mangiare quella mela, dato che sai come è finita, quella storia).
L’interdizione del creatore al morso della mela è in te l’interdizione alla distruzione della natura, l’interdizione all’uso della plastica, al masticare i chewing-gum per poi appiccicarli in giro, come invece fa il più simpatico dei personaggi, che appiccica il suo chewing-gum sull’occhio dell’antropomorfo idolo dorato.
Nonostante il personaggio simpatico abbia dichiarato in un comprensibile e sottotitolato inglese che tutto sta andando alla grande, tu sei in agonia, non puoi che aspettarti il peggio.
E qui avviene la rottura, lo svelamento. Il sipario si chiude.
Ti attraversa il pensiero che si possa andare avanti solo un passo alla volta.
Ma se andare avanti volesse dire tornare indietro? Riavvolgere il nastro? Andare da B ad A ripercorrendo minuziosamente ogni singolo istante, al contrario? Ecco che l’azione si fa palindroma: ciò che è stato costruito, l’idolo, viene distrutto, e ciò che è stato distrutto viene costruito.
Interviene anche la magia a far levitare e scomparire i sacchetti di plastica.
In un tempo che è simile a quello dell’inconscio, scandito da un bellissimo loop musicale (Disintegration Loops di William Basinski eseguita da Spectra Ensemble) i personaggi parlano una lingua a te comprensibile mentre ricostruiscono un mondo riportandolo al punto zero, cancellando fino a farle scomparire le tracce dell’umano.
«Voglio restare e ricominciare» dice qualcuno, mentre tu stai meditando ormai, nello spazio che si apre tra le parole e i gesti che vanno a sovrapporsi negando quanto hai visto finora; pensi che ci sia proprio bisogno di uno spostamento di piano per farci comprendere che ciò che è o che non è, siamo noi, sempre noi a generarlo.
Se vuoi vedere la realtà per ciò che è, accorgerti dell’illusione di cui ti sei nutrita, devi saltare su un altro piano percettivo.
«I’m going to miss this» dice qualcuno: certo, l’illusione ti mancherà.
La mela viene posta tra i rami dell’alberello, rossa e innocente, cessa di essere oggetto del desiderio suo malgrado, e l’incantesimo per te si spezza: esci dal loop, ti commuovi per questa umanità addormentata, e per te, che ancora sogni il tuo sogno.
Are we not drawn onward to new erA
regia Alexander Devriendt
con Angelo Tijssens, Charlotte De Bruyne, Maria Dafneros, Karolien De Bleser, Ferre Marnef, Michaël Pas
drammaturgia Jan Martens
scenografia Philip Aguirre
luci, suono, video Jeroen Wuyts, Babette Poncelet
assistenza tecnica Seppe Brouckaert
costumi Charlotte Goethals, Valerie Le Roy
composizione William Basinski
arrangiamenti Joris Blanckaert
rifinitura della statua Daan Verzele, Jelmer Delbecque, Jesse Frans
fotografia Mirjam Devriendt
stage Morgan Eglin, Tim De Paepe
Produzione Ontroerend Goed
Coproduzione Spectra, Kunstencentrum Vooruit Gent, Theatre Royal Plymouth, Adelaide Festival, Richard Jordan Productions