LAURA BEVIONE | Se Amleto non fosse stato principe di Danimarca e suo padre, anziché un re, fosse stato un proletario con tendenza all’alcolismo e un’infanzia complicata, contro chi si sarebbe rivolta la sua potenziale sete di vendetta? Ovvero, in altri termini, chi avrebbe avuto interesse a ucciderne il padre in mancanza di un regno da ereditare?

Il giovanissimo (è nato nel 1992) scrittore francese Édouard Louis scrive un romanzo/dialogo con il padre, un’opera concentrata e stratificata in cui la vicenda autobiografica scivola in un lucido e serrato atto d’accusa contro politiche sociali elitarie – potrebbe sembrare un ossimoro se fosse soltanto un artificio retorico anziché realtà – e a dir poco disattente. Louis non omette nulla riguardo le dinamiche familiari malate in cui è cresciuto e a cui, a tratti, si è opportunisticamente adeguato; né, tantomeno, tace nomi e cognomi dei responsabili della finale disgregazione del padre.

Chi ha ucciso mio padre – senza punto interrogativo, ché gli assassini sono noti – si presenta dunque tanto come contemporaneo romanzo di formazione quanto come acuto oggetto politico: Louis narra gli eventi, personali e pubblici, lasciando che sia la scabra ma eloquente evidenza dei fatti a ritrarre una realtà ancora costruita su sperequazione e pregiudizio, incomprensione e violenza.

Foto di Luca Del Pia

È quasi inevitabile che un romanzo del genere abbia attratto l’interesse di artisti del teatro sensibili tanto alla letteratura contemporanea quanto alla pittura problematica della contingenza quali il regista e attore francese Stanislas Nordey – che ne ha curato una messinscena nel 2019 –; il regista olandese Ivo van Howe e quello tedesco Thomas Ostermaier – che ha voluto lo stesso Louis in scena -; e, in Italia, la coppia Tagliarini-Deflorian che, insieme a Francesco Alberici, anche interprete, ne ha curato un adattamento che, dopo il debutto pre-lockdown al festival Vie, è tornato in scena al teatro Astra di Torino e poi alla Triennale di Milano.
Immerso in una scenografia volutamente algida, quasi carceraria – prevale il buio, acceso da due file centrali di neon – e sostanzialmente spoglia se non per un cumulo di sacchi neri da cui man mano vengono estratti i reperti di una complicata relazione padre-figlio – Alberici è allo stesso tempo protagonista e narratore esterno, convolto emotivamente eppure capace di stringente e acuto distacco analitico.
Passando fluidamente dalla prima alla terza persona – e, in questo secondo caso, raggiungendo il proscenio e osservando lo spettatore quasi con un cinematografico sguardo in macchina – l’interprete riesce a essere, contemporaneamente, l’Eddy – qui vale la pena ricordare che Édouard Louis è lo pseudonimo di  Eddy Bellegueule – bambino e adolescente ma anche Édouard  che, con lucida fermezza, denuncia la politica sociale del proprio paese; e, pure, l’attore che ha scelto di far dialogare sé stesso con la biografia e la personalità del suo “personaggio”, tanto diverse dalle proprie.

Foto di Luca Del Pia

Francesco/Eddy/Édouard, il volto inizialmente seminascosto dal cappuccio di una felpa nera, ricostruisce un dialogo con il padre, cui un incidente sul lavoro ha determinato una precoce e inferma senilità, che è occasione non soltanto per ripercorrere una relazione fatta di sostanziale incomprensione ma pure per offrire uno squarcio della vita della provincia francese, lontana anni luce dagli scintillii della Ville lumière… Siamo nella regione Hauts-de-France, nel piccolo comune di Hallencourt: un’area “depressa”, abitata da operai e casalinghe, capace di offrire ben pochi svaghi se non l’alcool e, quale conseguenza della posizione periferica e del disinteresse tanto di politici locali che nazionali, imprigionata in consuetudini e schemi di pensiero anacronistici e paralizzanti.

C’è una madre casalinga che di nascosto dà denaro al figlio maggiore, un adolescente già dipendente da alcool e droghe, e trascorre il tempo fumando pigramente perché, in realtà, non ha nient’altro da fare; c’è, soprattutto, un padre segnato da una famiglia d’origine afflitta dall’alcolismo e in costante fragilissimo equilibrio fra orgogliosa volontà di riscatto – i regali di Natale per i bambini nascosti nel bagagliaio dell’auto – e una quasi involontaria attrazione per pratiche autodistruttive, peraltro alimentate dall’infierire del destino – la succitata automobile che esplode la vigilia di Natale…
Un padre che, da una parte, non può accettare la palese “diversità” di quel figlio che mette su un piccolo spettacolo con i figli degli amici venuti in visita ricoprendolo, dal suo punto di vista, di vergogna; e, dall’altra, ne esaudisce il desiderio di ricevere in regalo per il compleanno videocassetta e colonna sonora del film Titanic… Un uomo ferocemente picchiato dal figlio maggiore a causa di una piccola – ma terribile nei risultati – vendetta messa in atto dallo stesso Eddy, inconsapevole della potenza distruttiva della miccia che ha innescato, contro la madre e il fratello, che ne avevano preso in giro la scarsa mascolinità.
Un padre che viene cacciato di casa dalla moglie, stanca delle sue sbornie, ed è costretto a ricostruirsi un’esistenza raccogliendo gli abiti e gli oggetti personali che lei gli ha gettato sulla strada chiusi in sacchi per l’immondizia.

Foto di Luca Del Pia

Una parabola che Édouard traccia con serrata inesorabilità, trattenendo ma non occultando emozioni e sentimenti, senza concedere attenuanti né ai propri genitori, né al fratello, né, tantomeno, a sé stesso, ossia a Eddy. Una narrazione in cui non c’è giustizia, ma soltanto vendetta, meschina e inane, amara e (auto)distruttiva.

Ma, a un certo punto, «il padre e il figlio sono più vicini» e il secondo, indossata una giacca a vento bianca e azzurra e una sciarpa scozzese, ingobbito e rallentato, si mette letteralmente nei panni del primo, per raccontare come e, soprattutto, per colpa di chi, si è tramutato in un essere allo stato quasi larvale, constatando l’impossibilità di modificare un destino prefigurato fin dalla nascita. E qui Édouard è determinato ed esplicito nel denunciare provvedimenti legislativi e, dunque, ministri e presidenti della “nobile” repubblica francese, forse dimentica di quel motto – liberté, égalité, fraternité – che ne plasmò le radici.
Sarkozy, Macron e i loro ministri delle finanze e dell’economia, solerti nel distruggere quello “stato sociale” che dovrebbe garantire a ogni cittadino una condizione di vita dignitosa, in nome di una snobistica e arbitraria interpretazione della meritocrazia – Macron che rivendica la presunta maggiore dignità dell’uomo che indossa la cravatta rispetto a chi veste semplici abiti da lavoro…
Francesco, pur ingobbito e incurvato su stesso a dare oggettiva evidenza alla fatica del vivere del padre di Eddy, non ha esitazioni nell’inanellare l’uno dopo l’altro nomi e decreti, dichiarazioni e provvedimenti che, gradualmente, hanno disintegrato lo stato sociale – quel “welfare” di cui alcuni politici amano riempirsi la bocca senza tradurre in pratica le proprie parole – e, dunque, condannato ancora una volta i “vinti” della storia.

Ecco che, qui, ritorniamo ad Amleto e alla questione iniziale, ovvero quella che Édouard chiede a viva voce: è vendetta o giustizia? Questione privata o vicenda esemplare? L’autore sa soffocare la rabbia istintuale di Eddy e, con la passionale determinazione e l’informata intelligenza che ne caratterizzano la statura di vero intellettuale, chiede infine giustizia, per il padre certo ma anche per tutti quei “cittadini” deprivati dei propri diritti fondamentali, in primo luogo la dignità.

Una denuncia e una sacrosanta pretesa di giustizia che Deflorian-Tagliarini-Alberici fanno propria costruendo uno spettacolo che, nato poco prima dello scoppio della pandemia, intercetta esiziali negligenze dello stato e sopravvivenze di sacche di degrado culturale che delle prime sono in larga parte conseguenza; ma non solo, si tratta anche di un’esplorazione quasi incredula nell’impossibilità del dialogo fra un padre e un figlio, dell’implicita scoperta dell’intrinseca innaturalità di una relazione che si dà per naturale e scontata. Ma se i padri, come in Amleto, chiedono ai propri eredi di sacrificarsi per vendicarli; ovvero, come in Louis, soccombono all’ingiustizia e a una sorta di predestinazione sociale, come sapranno dialogare davvero con i propri figli?

 

CHI HA UCCISO MIO PADRE

testo Édouard Louis
regia Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
traduzione Annalisa Romani (edita da Bompiani / Giunti Editore S.P.A.)
adattamento Italiano Francesco Alberici, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
collaborazione all’adattamento Attilio Scarpellini
luci Giulia Pastore
costumi Metella Raboni
assistenza alla regia Chiara Boitani
collaborazione artistica Andrea Pizzalis
interprete Francesco Alberici
produzione A.D., Teatro Di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione,TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival Delle Colline Torinesi, Fog Triennale Milano Performing Arts

Teatro Astra, Torino, 15 maggio 2021