FRANCESCA TISANO | L’occhio, ancor prima di aver accesso al palco, chiuso dal sipario in attesa dell’inizio, viene catturato da un pianoforte a coda al centro della platea, svuotata delle poltrone. Lo strumento al centro mette subito lo spettatore in allerta; la scena è già abitata, in una dimensione espansa, con misura e precisione, su due livelli: quello musicale, il Catalogue d’Oiseaux di Olivier Messiaen, e quello coreografico affidato ai movimenti dei danzatori della Compagnia Mòra, costruiti sulle musiche del compositore e ornitologo francese dalla coreografa Claudia Castellucci.
È l’ingresso del pianista Matteo Ramon Arevalos che innesca l’azione scenica di Fisica dell’aspra comunione: si apre lo spazio del palco, omogeneo, chiuso sul fondo e sui lati da tessuti pesanti di cui talvolta prevale il chiarore e talvolta una sfumatura più terrena, a seconda delle dense e precise variazioni di luce disegnate da Eugenio Resta. Risalta il taglio diagonale sul fondale, dall’alto verso il basso, come se ci indicasse gli albori del ballo, portato dai danzatori sul palco con passi cadenzati e decisi, disposti in una schiera imperturbabile, con il rigore e l’introspezione interpretativa che contraddistinguono il lavoro di Claudia Castellucci.
Il numero cardinale I – proiettato sul fondo – indica il primo di una serie di quadri in cui i corpi scoprono e scolpiscono azioni e ritmi, in un dialogo serrato con il gesto del pianista, portatore di suono e di senso, vero e proprio atto performativo. Ogni sezione è in sé significante: non è manifesta una linea temporale o consequenziale specifica, la si crea nel momento in cui la visione raccoglie il testimone della fine di un quadro, inanellandola con l’inizio del successivo.
I danzatori appaiono, con l’andare del percorso spettacolare, sempre più veri e propri abitatori dello spazio scenico, intenti a ponderare e misurare, per scegliere una direzione, un gesto, seguendo un ritmo – quello della musica – apparentemente solo interiore. Li si intuisce come in una caccia, con e sulle note di Messiaen, una caccia fatta di scelte subitanee che disegnano vettori, intessono dialoghi e chiudono i corpi in spazi meditativi. Sembrano come rapsodi, in senso etimologico, ossia coloro che cuciono canti, seppur in riferimento ai movimenti, che suggellano con la musica un patto inscindibile: gli improvvisi sbalzi ritmici, le aperture, i voli, i trilli e le fughe degli uccelli innervano e significano la composizione coreografica.
Si attraversano dimensioni corali, solitudini, cadute e ritrovamenti, in una scena solenne ma al contempo presente, a noi vicina, pur nella sua enigmaticità, dove si percepiscono lo spazio e il tempo della decisione del danzatore di abbandonare lo stormo, ritrovarlo, indicare una via, accarezzare l’aria, afferrare qualcosa in volo.
Un succedersi di eventi che mette alla prova lo sguardo dello spettatore, a meno che non si faccia semplice testimone della nuda concretezza del ritmo, del passo ponderato, deciso e irrevocabile. Come il danzatore sostiene il silenzio, dimorando nella pausa, punto nodale della ricerca attuale della Castellucci, così lo spettatore non può che rimettersi al qui e ora, senza ricercare nessi e schemi prestabiliti, narrazioni, e fare esperienza di un atto di creazione in essere, testimoniare l’avvenimento. A sostegno della “trasfigurazione” dello schema coreografico, introiettato come scelta, entra sul finire del ballo il «fastigio musicale» di Stefano Bartolini, introducendo una vera e propria crisi: lo spazio della misurazione e dell’ascolto viene come invaso da sonorità perturbanti e pervasive. La scena in penombra è abitata solo dalle ombre dei danzatori che portano all’estremo un dialogo serrato con lo spazio, al limite della lotta, come in un corpo a corpo in cui ognuno di loro si ritrova solo, privo della dimensione corale che si era andata intessendo fino ad allora.
Ed è nel silenzio che l’ordine e la misura dei quadri precedenti viene riconquistata.
I danzatori si riuniscono, bisbigliano tra loro in cerchio, ed escono dallo stesso punto da cui avevano preso possesso dello spazio. Mentre ci lasciano si voltano verso il luogo del loro agire, delle loro scelte, illuminato da un lieve chiarore, un crepuscolo fino al buio finale.
Claudia Castellucci, insignita del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2020, quale «coreografa sobria, seria, minimalista ed esigente, che lavora con sacralità alla sua arte», raggiunge con Fisica dell’aspra comunione una matura condensazione delle linee di ricerca che accompagnano dagli inizi le scuole fondate negli anni (Teatrica della discesa; Stoa; Mòra), fulcro della ricerca artistica e origine dei balli della coreografa.
La Compagnia Mòra – tradendo la dialettica del puro studio – nasce proprio per approfondire la tecnica della danza come ballo in quanto improntato sul tempo e sulla collettività, senza ricadere in un’espressività esteriore e personale. L’attenzione degli ultimi anni sulla pausa, indagando il vuoto tra una figura marcata e l’altra, ha incontrato l’opera di Messiaen, la prima opera nota che la coreografa utilizza in un suo spettacolo.
Se altrove il ballo si era legato a elaborazioni musicali originali – andando fino a La Seconda Neanderthal, nata dall’ascolto della Sagra della Primavera di Stravinskij, poi elaborato in una musica originale da Scott Gibbons – qui adesso il rapporto tra finzione e realtà, proprio della ricerca di Messiaen nel tradurre i canti degli uccelli in note, sostiene il rapporto tra schema e realtà della rappresentazione dei danzatori, tra la coreografia assunta e il deflagrare del movimento come unica realtà nella durata del ballo.
Se anche nelle ultime creazioni – Verso la specie; All’inizio della città di Roma – si ritrova questa dimensione della decisione istantanea del danzatore, come in un rito collettivo di ascolto e di assunzione del ritmo nella sua imprevedibilità, Fisica dell’aspra comunione sembra esserne la manifestazione più cristallina e precisa. E se già nelle opere sopracitate la coralità diventava luogo dell’emergere della solitudine, ancora una volta l’opera – presentata alla Biennale a ottobre – riesce ad andare ancora più in profondità, facendo entrare lo spettatore in questa unità, con la consapevolezza della condizione di solitudine di ogni individuo. Nella fine, sullo sciogliersi del ritmo e sull’esprimersi della danza nel silenzio, i danzatori lasciano la scena e si voltano come guardando per l’ultima volta quel luogo della realtà della rappresentazione in cui si è consumata la durata dell’azione scenica. E abbandonano anche lo spettatore, testimone di un atto di cui ha fatto parte, come in un rito collettivo, ma che lo riguarda in quanto individuo singolo. Si esce così in una solitudine priva di disperazione, bensì intima e profonda, in cui è necessario rimettersi al silenzio, a una domanda antica e originaria, ancora senza risposta e auspicabilmente inesauribile.
FISICA DELL’ASPRA COMUNIONE
Ballo della compagnia Mòra
organizzazione Camilla Rizzi
direzione tecnica e luci Eugenio Resta
direzione alla produzione Benedetta Briglia
coproduzione La Biennale di Venezia
Teatro Bonci, Cesena
30 maggio 2021