ELENA SCOLARI | Devo a Romeo Castellucci una parte significativa della mia passione inesauribile per il teatro, la sua Orestea (del 1995, ripresa nel 2016) rimane per me indimenticabile, e quando anche il solo ricordo è ancora disturbante significa che c’era stoffa, in quel caso di sogno e di incubo. La Clitennestra obesa nella teca, i conigli corifei ‘esplosivi’, il braccio meccanico di Oreste sono elementi e invenzioni che surclasserebbero a mani basse ancor oggi la gran parte di quegli spettacoli che si autodefiniscono “eventi unici e irripetibili” (anche quando hanno una settimana di repliche). Sulle altisonanti schede di presentazione è tutta una rivoluzione, un’esperienza immersiva dietro l’altra, e via scioccando.

ph. Yuriy Chickcov

Altrettanto memorabili furono il suo Giulio Cesare (un condottiero tracheotomizzato); la spaventevole fiaba Buchettino ascoltata ognuno nel proprio lettino con i passi dell’orco rimbombanti sul tetto della casa; Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte) di Céline con un cavallo morente in proscenio. Tutte folgoranti creazioni di cui i fortunati spettatori devono essere grati al regista per averli davvero scossi, altro che.
In anni più recenti Castellucci ha fatto molto parlare anche per Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, in cui rifletteva sul decadimento fisico di un padre, feci incluse. L’artista cesenate ci ha abituati a sorprenderci, ha spesso preso in contropiede il pubblico, scomodandolo dal velluto delle poltrone, costringendolo a svegliarsi, anche scandalizzandolo un po’.

Il percorso di un uomo d’arte, inventore di opere importantiti che hanno cambiato la Storia del teatro non solo italiano, è necessariamente complesso: una carriera viva deve sperimentare, può (forse deve?) incontrare insuccessi, può padroneggiare diversi linguaggi, rivoltare più volte l’alfabeto e ricombinarne le lettere, infastidire e incantare.
Ecco perché il regista è stato premiato con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia, è stato insignito del titolo di Chevalier des arts et des lettres dalla Repubblica francese ed è stato ora nominato Grand Invité alla Triennale di Milano per il triennio 2021-24.

ph. Lorenza Daverio

Ed ecco anche perché Il Terzo Reich, l’entrée di Castellucci al Teatro dell’Arte in Triennale, lascia delusi, e anche un poco insonnoliti, a dirla tutta. Il titolo, senza nessun understatement, farebbe pensare a qualcosa che non possa lasciare indifferenti, come invece avviene, se non fosse per un certo fastidio. Il lavoro è definito ‘installazione’ (mettendosi così al riparo da chi si aspettasse uno spettacolo). Come è composta è presto detto: pochi minuti introduttivi in cui la performer Gloria Dorliguzzo interpreta sulla scena quasi buia – con indosso un impermeabile nero che suona accartocciato dai suoi movimenti – un prologo coreografato in cui officia una specie di cerimonia che finisce con lo spezzare in due non un’ostia ma la riproduzione di una grossa colonna vertebrale e la lascia in proscenio, a terra. Subito dopo lei se ne va e su un grande schermo nero comincia una proiezione di parole, prima lenta e poi sempre più veloce: sono tutti i sostantivi della lingua italiana (niente verbi o aggettivi) sparati uno dopo l’altro secondo il ritmo fortissimo e battente dei suoni sgraziati di Scott Gibbons, graffi, stridii… E così per 50 minuti. Diciamo 47 tolto il prologo.
Fine.
Nemmeno lo sforzo di una chiusa di qualunque tipo.
Ora: lo sforzo provo a farlo io e cosa posso evincere? Il bombardamento di parole che intontisce? La sovrabbondanza di comunicazione che lascia storditi invece di rendere più consapevoli? La dittatura della narrazione che parla parla parla ma non dice nulla? L’effetto ipnotico e soporifero di qualcosa che si ripete? Oppure ancora l’idea che l’eccesso di ‘oggetti’ nominati impedisca una vera scelta perché non possiamo far altro che subire la sequela? La nostra spina dorsale spezzata da questo sfiancante esame ottico e linguistico?
Può darsi mi sfugga qualcuno dei possibili significati, non ne dubito, ma siamo sicuri che questa sia la “straordinaria installazione” di “uno dei più grandi artisti viventi” (come si dice sul foglio di sala ed è definizione che non si discute)?

ph. Lorenza Daverio

Si è visto qualcosa di molto simile in più di una edizione di Biennale Arte, almeno dieci anni fa se non di più. E non c’era granché di sconvolgente nemmeno allora. Ricordo il padiglione dell’Iran con un muro di parole verticali proiettate che cadevano a cascata dalla cima dell’alta parete, con musica techno.
La questione della sensibilità retinica e “mnestica” (l’ho cercato anch’io sul vocabolario, non preoccupatevi, significa ‘che concerne la memoria’. E comunque è sinonimo di mnésico, dovesse servirvi a una cena importante) aggiunge che alcune parole rimangono impresse nella corteccia cerebrale – io ho scelto bottarga e fellatio, è capitato così – mentre la maggior parte si perde. Il vocabolario-mitraglia confonde e crea quindi disordine, certo. Sarà ma io trovo banale anche questo.
Insomma, scomodare addirittura Il Terzo Reich mi sembra fuori luogo, certo che la comunicazione nazista è stata parte del suo nefasto successo e va bene lanciare spunti e provocazioni perché sia il pubblico a rifletterci sopra ma in questo caso si lascia allo spettatore qualunque osservazione, limitandosi al bombardamento verbale e sonoro. Proprio perché conosciamo la Storia sappiamo che il libero arbitrio esiste, eccome.
Vedere Quarto potere di Orson Welles, leggere un saggio di Jean Baudrillard o Paolo Fabbri o un romanzo di Dostoevskij ci dice molto di più di questa ordinaria installazione.

Del resto uno studio dell’Università di Hartford (Connecticut) ci dice che stiamo diventando più stupidi: il Q.I. mondiale sta calando in maniera sensibile dal 1950 a oggi, con previsione di peggioramento. Molteplici le cause, non ultima – quanto al linguaggio – l’avvento dei social: con Twitter ci si è abituati a usare 40 caratteri per esprimere un concetto e la complessità è andata a farsi benedire. I libri di successo in italiano di un secolo fa contenevano, mediamente, un numero di vocaboli molto più ampio degli immediati best-seller di oggi. Una lingua più povera costa meno fatica e allena meno il cervello.

Se uno degli intenti di questa installazione/performance è affermare che la lingua forma anche il pensiero (sacrosanto) io credo che la sola denuncia del problema sia poco, da parte di chi potrebbe, per mestiere, suggerirne con i fatti (e con i fatti teatrali) un uso accorto e approfondito. La crisi di superficialità linguistica cui assistiamo da tempo, ormai, chiede una risposta che, a mio parere, si deve esplicitare proprio con la profondità e con la fatica di cercare le parole giuste per combattere l’immediatezza di slogan e semplificazioni.
Che questo avvenga sempre meno lo sappiamo già.

Il Terzo Reich
installazione Romeo Castellucci
suoni Scott Gibbons
coreografia e interpretazione del prologo Gloria Dorliguzzo
produzione Societas

Triennale Teatro dell’Arte, 11 giugno 2021