RENZO FRANCABANDERA | La piantumazione stabile in periferia è cosa che richiede una certa audacia. Perchè se fiorire è il fine, come diceva la Dickinson in una sua lirica, l’arte del seminare e del prendersi cura, dove il terreno è più restio a far germogliare, è più complessa. Per questo Dom la cupola del Pilastroil centro di pratiche artistiche e culturali sede operativa della compagnia teatrale Laminarie, che lo gestisce in convenzione con il Quartiere San Donato-San Vitale – Comune di Bologna, è un luogo che chiunque arrivi a conoscere trova suggestivo. Parliamo di uno spazio di circa 600 mq situato nell’area del Pilastro a Bologna, una zona assai periferica e passata alla storia d’Italia per vicende di cronaca complesse e legate a un tempo oscuro.
Qui, fra palazzoni di edilizia popolare, prossimi alla tangenziale cittadina e sicuramente distanti dagli agi vezzosi dei porticati antichi di centro città, sorge questo spazio invero originale, attrezzato per ospitare attività performative, musicali, espositive, progettato per essere adattabile a diverse modalità di utilizzo e per accogliere i diversi linguaggi delle arti contemporanee; un laboratorio delle arti che ha al suo centro la ricerca teatrale ma che è in grado di relazionarsi con altri linguaggi artistici, attraverso un dialogo continuo del quartiere con il pubblico, gli studenti, gli artisti, gli operatori e le altre istituzioni culturali cittadine, in una prospettiva fortemente multidisciplinare e internazionale.
Eravamo stati qui poco prima dell’inizio del cataclisma Covid. Era di sera. Si piantavano alberi in memoria di persone che avevano dato la vita per le loro idee. C’era una stupenda audio installazione curata da David Monacchi di cui scrivemmo e un incontro preparatore alla fruizione con un botanico che spiegava i perchè della tenacia di alcune forme vegetali in natura rispetto ad altre e di come gli ecosistemi si regolino su equilibri faticosi ma stabili quando non arrivano specie, come quella umana, capaci di sconvolgerli in poco tempo e in modo prolungato, quando non irrimediabile.
Poi la chiusura pandemica.
Siamo tornati quindi volentieri alla riapertura, per una rassegna che ha aperto martedì 8 giugno e che prosegue per due mesi, con cinque appuntamenti che si terranno nel parco del Polo Panzini, e che ha già visto ospiti, fra gli altri, due poetesse, Silvia Vecchini e Giusi Quarenghi, a dialogare sulle parole e sull’invisibile e di come l’infanzia sia un ponte per coglierne il legame; e ancora educatori, operatori culturali e insegnanti che si sono incontrati per discutere del rapporto tra scuola e città e per presentare il numero 88 della rivista Gli asini (hanno partecipato Barbara Bonora, Gabriele Argazzi, Luca Lambertini, Gabriele Vitello, Fulvia Antonelli, Enzo Savini, Bruna Gambarelli) e anche per illustrare, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna, gli esiti pubblici del Corso di Alta Formazione sulle tecniche del reportage foto e video promosso dalla Fondazione Cineteca di Bologna, con il sostegno del Fondo Sociale Europeo e della Regione Emilia Romagna.

Il programma prosegue con letture sceniche di LAMINARIE dedicate ai Pionieri del Pilastro: Gabriele Grandi, Tiziana Sgaravatto, Tommaso Raimondi, Gina Tassinari, Simone Bernasconi. Le letture si terranno, il 5 luglio, nel giardino dedicato ai Pionieri, che Laminarie ha realizzato lo scorso anno, tra gli alberi da frutto e le rose. Il programma si concluderà il 9 luglio con la festa di ampioraggioTV. In occasione del cinquantacinquesimo anniversario della fondazione del Pilastro si trasmetterà in diretta dal parco del Polo Panzini la XIV puntata di ampioraggioTV e si trasmetteranno anche gli esiti foto e video del corso di alta formazione promosso dalla Fondazione Cineteca di Bologna.

In questo programma di resistenza civile, abbiamo assistito allo spettacolo Invettiva Inopportuna nuova produzione di Laminarie di e con Febo del Zozzo, con la drammaturgia di Bruna Gambarelli, testi di Matteo Marchesini, che sarà in scena per l’ultima replica oggi, 30 giugno.Lo spettacolo vede in scena un combattimento tra un uomo solo e il mondo che lo ospita e che lui stesso ha costruito, con gli strumenti del teatro.
Lo spettatore viene accolto in sala da un disco luminoso rotante al centro dello spazio sferoidale del teatro e che nel suo progressivo rallentare la rotazione porta a lettura la frase che campeggia anche nel foyer del DOM: Il teatro valorizza gli imprevisti.
Forse sono gli imprevisti a non valorizzare il teatro, viene da pensare tornando con la mente ai mesi passati, ma è una riflessione che non facciamo nemmeno in tempo a elaborare perchè dal buio, quando l’installazione viene spostata, appare allo sguardo una fittissima selva di corde legate a terra e che convergono in modo disordinato e intricatissimo verso ganci e carrucole attaccate alle cantinelle che pendono dal soffitto.
Una installazione che ci ricorda una foresta oscura, composita e fitta, dentro cui l’interprete, vestito di nero e a volto coperto, si aggira con fare cauto e sperso.
Nell’incedere dell’uomo nello spazio, diviene progressivamente chiaro che si tratta di una installazione sonora, e che ogni corda è digitalizzata, ogni spazio contiene una dinamica sonora, come fosse un unico strumento capace di trarre dall’esserci di chi lo abita un suo suono, ogni volta diverso e irripetibile.
Per un certo tempo quindi, dopo aver rivelato il mistero di questo spazio e aver mostrato un foglietto che poi viene ripiegato senza che ne venga svelato il contenuto e riposto in tasca, del Zozzo continua in questa azione con abito e movimento dell’uomo nell’ambiente ostile della natura. Arriva a riprendere il foglietto, ma nulla: la rivelazione non arriva, mentre questo mondo, questa fitta ragnatela, pare fagocitare e diventare sempre più ostile nel rivelarsi, più abile ad ingabbiare che a lasciar liberi. È dopo un certo tempo che arriva la parola: è un audio sonoro che giunge forte e confuso, ripetuto fino allo spasmo ma incomprensibile e che riguarda il momento in cui si tocca il fondo. Ecco, in quel momento…
Ma anche qui ci si attende una rivelazione che non arriva. Arriva invece l’evento che dà il via alla distruzione di questa colossale installazione fatta di centinaia di metri di corde. Qualche strattone e gli angoli, gli appoggi, i ganci iniziano a collassare su se stessi.

disegno di Renzo Francabandera eseguito dal vivo

La grandiosa quanto semplice scenografia crolla. E l’uomo inizia una faticosissima azione di raccolta delle corde. Solo al termine di tutto, in un paesaggio desolato fatto di matasse di corda e qualche impalcatura che ancora stranamente si regge sbiecamente a mezz’aria, l’uomo rivela il contenuto di questo foglio. Un contenuto poetico e doloroso, sul fine del costruire, e sul costruire senza fine, che si perde poi nella fine stessa. Parole di taglio esistenzialista, in cui l’anelito speranzoso vorrebbe provare un ramo in cui germogliare, ma l’occhio di chi ascolta e ode si sperde nel desolato nulla alle spalle dell’uomo, che termina di recitare i versi. E va.

Solo ogni singolo spettatore può commentare e conoscere per sé la dinamica con cui è possibile entrare in dialogo con una costruzione impervia, giocata per forza sul rapporto plurale della funzione spettacolare, ma in fondo sulle dolorose consapevolezze che ciascuno ha dentro di sè sul senso del vivere.
La costruzione è ardita e fascinosa, la decontrazione, la distruzione lo sono ancora di più. Anzi. Forse la suggestione della lentezza con cui Del Zozzo raccoglie metro a metro, tirando giù a strattoni le corde dalle cantinelle, in una luce che non ha più il sapore artificiale dello spettacolo, della selva misteriosa, ma quella disvelatrice della mezza sala, ecco, quella operazione di raccolta dei cocci, se così possiamo definirla, commuove. Addolora, fa pensare davvero alla fatica inutile, all’affanno del vivere quando la speranza è una corda che non risuona, e le parole di Marchesini, belle, e che ripartono da quella rivelazione a metà sul momento in cui si tocca il fondo, arrivano taglienti, non permettono scampo.

Detto dunque che il lavoro gioca nella prima parte sull’elemento della meraviglia della rivelazione del mondo, anche quando ostile, e la seconda su quello della caduta, l’equilibrio di pensiero trova il suo baricentro più nella seconda che nella prima parte, che dunque può trovare qualche asciugatura per dare ancora maggior incisività e dolorosità alla seconda, rinunciando magari ad alcune insistenze e permettendo il fuoco sulla implicita fatica che si fa a montare questo colossale strumento a corde. È proprio quella dolorosa fatica, cui non assistiamo perchè la troviamo già tutta sistemata e ben messa, che però sovviene nell’atto della distruzione.
Quando arriva quella distruzione, tutto quel tempo, quella cura, quell’instancabile annodare aracnoide ci appare in controluce. Lo ripensiamo, lo immaginiamo, con l’uomo arrampicato sulla scala a far combaciare centinaia di metri di fili, a intricarli, a tessere una tela che sa, prima di noi spettatori, che verrà giù senza speranza: è artefice di ciò che potrà distruggere, a leggerla con spirito creativo; è un folle che si ingegna a costruire l’inutile, a vederla cupa.
Tornando a casa dalla periferia, però, sovviene il pensiero dei monaci buddhisti e del loro affaticarsi minuzioso a costruire mandala di sabbia meravigliosi, che poi loro stessi scompongono non appena finiti con un colpo di scopetta. A volerci ricordare che nessun ordine che l’essere umano pretende di voler dare all’universo arriverà mai a compiersi nell’uomo stesso, e che tutto torna al caos. Consolarsi dunque o incupirsi? La ricetta ognuno la conosce per sè. Ed è bello che valga solo per sè, per il primo dei nostri imprevisti. Il noi stessi.

 

INVETTIVA INOPPORTUNA

Di e con: Febo Del Zozzo
Regia, ideazione scene luci audio: Febo Del Zozzo
Drammaturgia: Bruna Gambarelli
Testi: Matteo Marchesini
Consulenza tecnica: Matteo Braschi
Tecnico: Riccardo Uguzzoni
Assistente di produzione: Perla Degli Esposti
Cura e organizzazione: Marcella Loconte
Produzione LAMINARIE
Anno 2021