FRANCESCO CHIANTESE | Ci sono uomini che sono uomini, altri che sono comunità. Andrea Cresti, malgrado la sua identità forte e un carattere che sapeva mostrarsi burbero quando non riusciva a farne a meno, era comunità. Lo penso da sempre e non è una riflessione teorica o un’astrazione da coccodrillo, banalmente è la mia esperienza rispetto all’incontro con lui.
Sono arrivato a Monticchiello, anzi “al Nano” come ci terrebbero a specificare i monticchiellesi (un podere a qualche chilometro dalle mura che raccolgono la loro comunità), in un’estate di piena adolescenza. Per riempire tempo e costruire relazioni mi offrii di dare una mano al vecchio circolo ARCI, uno di quelli in cui scendi tre scalini e sei in altro tempo o in un’altra geografia.
Non riesco quindi a separare totalmente Andrea da Alpo, Arturo, Ilvero, il Merlo… e dai tanti uomini che riempivano le serate al circolo e i cui caratteri giocavo a ricercare nei personaggi del loro autodramma come un bambino gioca a riempire un album con le figurine raccolte.
Inevitabile che un ragazzino della periferia napoletana come me, affascinato da Grotowski, fosse incuriosito da quella omonimia che colloca un altro Teatro Povero in un piccolo borgo tra le colline toscane. Credo di averlo infastidito molto con le mie domande, nei primi tempi, anche se Andrea non lo ha mai mostrato, anzi, al contrario, aveva quella disponibilità maturata in lui dai tanti anni di insegnamento.
Erano i tempi in cui cominciava a sognare il Museo TePoTraTos, dedicato all’esperienza del Teatro Povero, ed era affascinante restare a parlare con lui del rapporto tra il mio contemporaneo e il suo “tradizionale toscano”: c’era stupore nel trovare punti di contatto e altrettanta sorpresa nello scoprire, poi, divergenze incolmabili.
Ricordo con affetto quelle chiacchierate a cui, in fondo, lo costringevo, interrompendo le sue passeggiate, e con malinconia rammento la purezza di quel sogno al principio sulle cui derive anni dopo sono stato più volte critico. Del resto, se un uomo sta sognando un grande albero capovolto che sbatta in faccia al cielo le proprie radici, non si può pretendere stia lì a misurarne le conseguenze.
Ricordo la premura con cui commentava le mie prime regie quando Monticchiello le ospitava e l’affetto con cui pesava le parole davanti ai miei esperimenti imberbi di quegli anni. Ricordo anche la sua tristezza, in un pomeriggio primaverile, quando fu chiaro che per responsabilità di altri, con maggiori interessi e minore caratura, il mio gruppo di lavoro avrebbe dovuto interrompere il dialogo diretto con il Teatro Povero e con Monticchiello.
La sua voce conteneva assieme delicatezza e asprezza; forti si sentivano le fricative, le gutturali, eppure l’andamento era pacato, quasi rallentato. Il carattere che ricordo non era differente. Quante volte i suoi attori lo avranno sentito dire “è l’ultimo anno, eh!” e poi tornare l’anno dopo; quante volte lo avranno visto andare via sbottando da una prova, per poi essere lì il giorno dopo. Di certo non aveva un carattere semplice, che poi è qualcosa di sciocco da pretendere da qualcuno che cercava di rendere concreta una visione.
Con lui l’autodramma di Monticchiello assomigliava un pochino di più a Brecht e i suoi Brecht, messi in scena in inverno nella piccola chiesa sconsacrata tradotta in teatrino, assomigliavano molto all’autodramma di Monticchiello.
Più di tutto lo raccontano i suoi disegni. Non tanto le sue pitture, che ho molto amato, ma i piccoli schizzi a margine dei copioni che, invece, ho molto invidiato. Un buon attore avrebbe osservato quei disegni, minuti e minuziosi, e avrebbe capito la direzione in cui doveva andare il personaggio. Ho provato a farne anche io nel tempo, mi sono iscritto addirittura a corsi per poter disegnare; deluso ho trovato come alternativa ai disegni di Andrea la fotografia di strada.
Ecco, non gliel’ho mai detto, gli devo l’aver cominciato a scattare foto per dialogare con i miei attori. Così sono le persone come Andrea: prolifiche anche senza averne consapevolezza.