GIAMBATTISTA MARCHETTO | To leave or not to leave, this is the question. Parafrasando Amleto, sembra consistere in questo dubbio la tensione drammatica e a un tempo ironica che attanaglia i protagonisti di We are leaving, lo spettacolo firmato da Krzysztof Warlikowski che ha aperto la 49a Biennale Teatro a Venezia. Tratto da “Suitcase Packers” del drammaturgo israeliano Hanoch Levin, il lavoro del regista polacco – insignito dalla Biennale del Leone d’oro alla carriera – è una sintesi felice di poesia e grottesco, di leggerezza e gravità emotiva.
Dislocando in una Polonia tanto soffocante quanto universale il progetto drammaturgico che Levin ambienta in Israele, Warlikowski imbandisce una parata dai toni di un espressionismo realista e conturbante, capace di avvicinare a una dimensione intima di semplice disperazione, giocata sul senso di prigionia soffocante eppure seducente. “We are leaving” è infatti una teoria di funerali di donne e uomini che non hanno saputo partire in vita, che non hanno reagito alla tentazione di rimanere quello che erano. Ecco allora che la permanenza nel proprio presente, che si macera e si decompone in un passato di rimpianti, diviene la peggior condanna per una comunità che si trova privata di ogni senso dell’esistere e che assiste, esequia dopo esequia, a una diaspora di anime tristi, lacrimevoli, bestialmente votate ad un cinismo schietto e privo di ironia.
È invece un’ironia amara e bruciante quella che, non senza una sorta di manierismo del grottesco, Warlikowski sbatte in faccia allo spettatore. Tra amori infelici e corpi tristemente voluttuosi, disgregazioni familiari e simboli oltraggiati, i protagonisti di questo affresco – che ondeggia tra un visionarietà distortamente felliniana e quella sfumatura carnalmente surreale che il teatro polacco (con il cinema) ha portato nel Novecento – incarnano una brutalità innocente che non arriva nemmeno ad essere male di vivere, ma si ferma piuttosto ad una ignavia dolorosa e naif.
Tornando all’interrogativo amletico, viene dunque da chiedersi se chi parte possa salvarsi dalla palude mefitica di cui Levin/Warlikowski attribuiscono consapevolezza a tutti i personaggi sulla scena. La risposta non è data, ma potrebbe desumersi dal disincanto che l’ultimo oratore rimasto a tessere necrologi restituisce al pubblico, spiegando con toni religiosamente scarni che in fondo il non-senso rimane la cifra esistenziale a fronte di qualsiasi opzione. Diviene allora intimamente pesante la scelta di provare a giocare una partita più grande, più alta anziché lasciare che la vita accada come se nulla fosse. E per paradosso il suicidio diviene un atto di coraggio forse più drastico, ma probabilmente meno amaro della partenza.
L’impianto di questo lavoro di Warlikowski è corale e solidificato attorno alla qualità dell’interpretazione di un bel cast del Nowy Teatr di Varsavia (Bartosz Bielenia, Mariusz Bonaszewski, Agata Buzek, Andrzej Chyra, Magdalena Cielecka, Ewa Dałkowska, Bartosz Gelner, Maciej Gąsiu Gośniowski, Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Jadwiga Jankowska-Cieślak, Wojciech Kalarus, Marek Kalita, Dorota Kolak, Monika Niemczyk, Maja Ostaszewska, Jaśmina Polak, Piotr Polak, Jacek Poniedziałek e Magdalena Popławska). Anche l’integrazione – a tratti surreale – di innesti video risulta organica e funzionale al contesto.
“Da più di vent’anni Warlikowski è fautore di un profondo rinnovamento del linguaggio teatrale europeo. Utilizzando anche riferimenti cinematografici, un uso originale del video e inventando nuove forme di spettacolo atte a ristabilire il legame tra l’opera teatrale e il pubblico, sprona quest’ultimo a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente”. È questo il passaggio chiave della motivazione con cui la direzione artistica ricci/forte ha proposto l’assegnazione al polacco del Leone d’oro alla carriera. Un premio che il regista ha voluto dedicare a Zygmunt Malanowicz, attore storico del Nowy Teatr morto di recente per complicazioni del Covid.
È infatti “un artista libero – scrivono ricci/forte – che apre brecce poetiche illuminando con un fascio di luce cruda il rovescio della medaglia; che rompe la crosta delle cose toccando le coscienze; che scende nelle viscere del dolore e mette in discussione con ironia le ambiguità sia della Storia con la “s” maiuscola sia quelle della nostra esistenza individuale, offrendoci la visione di una società minacciata da cambiamenti radicali”.
Il teatro di Warlikowski si impone oggi con una forza che denuda le contraddizioni, le miserie, i paradossi di un presente fatto di dimenticanza. “Noi viviamo solo nel presente e sembriamo disinteressati rispetto al passato – ha detto nel ricevere il premio a Venezia – alle cose che hanno dato forma alla nostra cultura e ai nostri pensieri, ai nostri traumi e i nostri sogni. Stiamo dimenticando quanto importante fosse cercare le cose che non possono esser viste e provare a cogliere un breve squarcio di esse che ci veniva concesso”.
Il suo è un teatro “scorticato” che costringe a guardare in faccia il non-senso, forse per suscitare una reazione o forse solo per creare una consapevolezza.
WE ARE LEAVING
Tratto da “Suitcase Packers” di Hanoch Levin
Adattamento Krzysztof Warlikowski, Piotr Gruszczyński
Regia Krzysztof Warlikowski
Scene e costumi Małgorzata Szczęśniak
Musica Paweł Mykietyn
Design luci Felice Ross
Movimenti Claude Bardouil
Animazioni e video Kamil Polak
Produzione Nowy Teatr, Varsavia
Teatro alle Tese, Venezia | 2-3 luglio 2021