ILENA AMBROSIO | La verità che viene respinta, una voce profetica che incontra solo orecchi sordi e increduli. Fu il drammatico destino di Cassandra, vittima del maleficio di un dio le cui brame rimasero insoddisfatte: lo sputo di Apollo rese le sue labbra strumento prediletto di Verità ma le sue parole restarono sempre inascoltate, il suo sguardo sul futuro fu spento dalla calunnia, dall’infamia, dalla violenza.
A questa, che è una delle figure più tragiche e appassionate della mitologia greca, rende omaggio Resurrexit Cassandra, il testo di Ruggero Cappuccio al quale Jan Fabre dà forma attraverso il corpo e la voce di Sonia Bergamasco – dopo la tedesca Stella Höttler nel 2020 – e che è stato accolto nella più che mai adatta cornice del Teatro Grande di Pompei, per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi del Teatro di Napoli.
Lo spazio che ospita gli spettatori è oltremodo suggestivo. L’aura di sacralità del teatro avvolge con coerente armonia la lunga scena bianca e l’ampio schermo che la segue facendole da fondale. Disseminati a calcolate distanze, serpenti in legno di differenti dimensioni, totem che paiono moltiplicarsi nelle loro ombre create da un pulito ma efficace gioco di luci (di Wout Janssens).
Passando tra di loro, dalla sinistra, fa la sua sortita, a passo lento, processuale, una figura in nero, statua mobile nella rigidità dell’ampia gonna, nel corpetto che le fascia busto e braccia, nel velo che le copre il volto. Sacerdotessa, donna in lutto, matrona: è lei, Cassandra.
Una voce maschile fuori campo (lo stesso Cappuccio) le riempie i movimenti della bocca per raccontare di «una vasta distesa di sabbia chiara», di «un vento lieve», di «piume di uccelli nere e bianche»: da questa arena desolata emerge un corpo di donna, una donna che pare immensa, e bellissima. Cassandra risorge in una descrizione che ha del pittorico e insieme del teatrale ma che diventa materica, quasi anatomica quando è lei, immobile al centro della scena, a raccontarla: «Dopo molto secoli dalla mia morte si compie un inconfessabile prodigio…». Le cellule del suo corpo si ricompongono ad occupare l’intero globo terracqueo: «…ventre ad Atene, milza a Bagdad, denti a Pietroburgo… vescica ad Assuan… sangue nel profondo del Mare Egeo, marea dei mestrui nel letto dell’Eufrate, vagina a Palermo…». È un corpo immenso che «si ritrova pezzo per pezzo e, rifatto pezzo per pezzo, è pronto alla battaglia».
Risorge per combattere Cassandra, ancora, contro gli uomini e le loro tragedie, contro la loro cecità e ostinazione ad autodistruggersi.
Il racconto di Cappuccio scadenza questa battaglia in capitoli, introdotti acusticamente da un ticchettio di orologio e visivamente da cinque cambi d’abito, cinque abiti da sera di colori diversi che la Bergamasco tiene uno sotto l’altro, a raccontare le epoche di questa donna universale che, di tragedia in catastrofe, di guerra in genocidio, è costretta a reincarnarsi ma per restare sempre, ugualmente, inascoltata. Una battaglia tanto tragica quanto inutile, come tagliare il fumo con un’ascia; e la si vede provare a farlo, scapigliata e in sottoveste nel filmato proiettato sul fondale.
Si odono i rumori spaventosi della guerra, urla straziate di bambini, spari, i lamenti di una natura traviata. Come ai Troiani Cassandra urla agli uomini di oggi di badare a ciò che fanno, di prendere coscienza di ciò che sanno stanno perdendo: «Non resterà vivo uno di voi se non lasciate che la pioggia delle mie parole vi bagni il cuore. Non ci sarà più una Pietà di Michelangelo… non resterà una sola biblioteca né un rigo soltanto di Virgilio… non ci sarà più memoria dei corpi imbalsamati dei faraoni, di Stravinskij…». Li mette, ora con violenza, ora con disperazione, ora con un pungente sadismo, di fronte alla «processione marcescente che stanno celebrando sulla Terra», di fronte alla devastazione di un pianeta che che prima o poi reclamerà – lo sta già facendo – i propri diritti, liberandosi di quelli che, in definitiva, sono ospiti dei quali può fare a meno. E intanto vive anche la propria tragedia Cassandra, quella di doversi ancora e ancora reincarnare per essere messaggera di sventura inascoltata e, quindi, testimone dell’autodistuzione dell’umanità: «Sono stanca di rinascere, non fatemi reincarnare di nuovo».
Il personaggio immaginato da Cappuccio è certamente potente, profondamente toccante l’accoramento con il quale cerca di riportare l’umanità alla responsabilità della propria vergogna, del proprio autoinganno e, al contempo, la supplica di salvarsi: “Resurge uomo, resurge donna!”.
La forza del messaggio resta però invischiata in un testo a tratti ridondante, che tende a cedere a immagini fin troppo oleografiche che rischiano di banalizzarne la reale portata.
Le scelte sceniche non riescono a invertire questa tendenza, optando per una “modernizzazione” che rischia di restare fine a stessa: questa Cassandra/diva che si cambia d’abito come fosse su una passerella di haute couture e canta come fosse in un night club perde di densità tragica.
La Bergamasco è, d’altronde, bravissima: accompagnata dalle belle musiche di Stef Kamil Carlens che danno colore a ciascuna fase della drammaturgia, sostiene con precisione e intensità un monologo di un’ora e venti, e si aggira per la scena con una gestualità di grande eleganza. Di certo il vero valore della pièce ma, purtroppo, materiale attoriale di qualità depotenziato dai limiti drammaturgici e scenici e, inoltre, da un disegno vocale che, piuttosto che creare un coerente crescendo di tensione, tende a frantumarsi in bassi e acuti che lo privano di organicità.
Consola l’estetica dell’immagine finale: la figura esile dell’interprete in un abito bianco al centro della scena e un denso fumo che striscia tra i totem fino a invadere l’orchestra del teatro affascina, ma la commozione, lo sconvolgimento, la catarsi che ci saremmo aspettati da cotanta storia e da cotanto luogo proprio non sopraggiungono.
RESURREXIT CASSANDRA
di Ruggero Cappuccio
ideazione, regia, scenografia, film Jan Fabre
con Sonia Bergamasco
Ruggero Cappuccio dà voce al prologo
musiche originali Stef Kamil Carlens
effetti sonori Christian Monheim
costumi Nika Campisi
disegno luci Wout Janssens
assistente alla regia e drammaturgia Miet Martens
direzione tecnica Marciano Rizzo, Wout Janssens
tecnico video Alessandro Papa
elettricisti Angelo Grieco, Fulvio Mascolo, Carmine Pierri
fonici Tom Buys, Marcello Abucci, Italo Buonsenso
capo macchinista Enzo Palmieri
macchinista Alessio Cusitore
sarti Roberta Mattera, Mario Leko
delegata di produzione Gaia Silvestrini
coordinamento e distribuzione Aldo Grompone
Film
direttore della fotografia Rutger-Jan Cleiren
cameraman Kasper Mols, Charles Pacqué
aiuto regista Alma Auer
tecnico luci Duncan Kuijpers
assistente di produzione Annemiek Totté
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival, Troubleyn/Jan Fabre, Carnezzeria srls, TPE – Teatro Piemonte Europa