LAURA BEVIONE | Ritornerà il pubblico a teatro dopo i lunghi mesi di chiusura? E, se sì, che genere di offerta spettacolare ne soddisferà il gusto assuefatto alle fiction e, soprattutto, la consapevolezza che questi eterni mesi di pandemia hanno modificato qualcosa, nelle relazioni con gli altri e, in primo luogo, con sé stessi?
È certo che uno dei sentimenti indeboliti dalla solitudine forzata è quello di appartenenza a una comunità, intesa positivamente quale eterogeneo ma solidale stormo di esseri umani, accomunati magari dall’uguale luogo di residenza, ovvero di temporaneo domicilio. Comunità quale polis contemporanea che, oggi come all’alba dei tempi, necessita quasi istintivamente di uno spazio “altro” e privilegiato in cui rispecchiarsi e mettersi costruttivamente in discussione.
Quello spazio può essere naturalmente il teatro che, dunque, oggi più che mai potrebbe essere strumento di coesione, di ripensamento e di ricomposizione di una comunità ancora disorientata e atomizzata. Una funzione positiva che, nondimeno, può darsi soltanto allorché la scena è in grado tanto di intercettare umori e bisogni, in particolare quelli inespressi e latenti, della comunità stessa, quanto di ripensare pratiche e convenzioni pregresse e divenute inopinatamente anacronistiche…
Non sappiamo se queste siano le riflessioni che hanno convinto Davide Livermore, direttore del Teatro Stabile di Genova, a chiedere al giovane Carlo Sciaccaluga di immaginare la messinscena di un sontuoso dramma pre-romantico in una centralissima e ognora affollata piazza del capoluogo ligure: certo è che quello cui abbiamo assistito qualche sera fa era uno spettacolo – due ore intense e partecipate con appassionata concentrazione – cui il pubblico ha assistito sentendosi parte di un unico corpo, sociale e “politico”.
Un sentimento non effimero di comunità generato dal convergere armonioso di più elementi, a partire dalla scelta dell’opera da mettere in scena, quella Congiura del Fiesco a Genova che Friedrich Schiller scrisse nel 1783 basandosi su svariate fonti e guardando alla città ligure come presidio di libertà contro la tirannia – prima delle conquiste napoleoniche, Genova e Venezia era ancora repubbliche indipendenti – e alla vicenda rappresentata – storicamente accaduta – quale paradigma dell’insofferenza a soprusi liberticidi.
C’è, poi, la decisione di allestire il dramma all’aperto, operazione realizzata non limitandosi a poggiare un palcoscenico temporaneo bensì trasformando un luogo – piazza San Lorenzo, dominata dall’omonima cattedrale gotica e a pochi passi da Palazzo Ducale – in articolato spazio teatrale: la scenografa Anna Varaldo ha creato una lunga passerella metallica che unisce il duomo al palazzo antistante, dalle cui finestre si affacciano a tratti gli attori. La stessa cattedrale, poi, è parte della messinscena: alcuni sipari avvengono nella parte centrale della scalinata mentre altri vedono la sua austera facciata bianca e nera animarsi grazie al videomapping curato da Davide Riccardi.
Ma la scelta più rilevante è quella di accettare che lo spettacolo fosse davvero all’aperto, incistato vitalisticamente nello spazio pubblico: non esistono barriere isolanti a delimitare il palcoscenico diffuso e la “platea”, così che gli avventori dei ristoranti della piazza si godono un monologo del protagonista tra una portata e l’altra, mentre i passanti interrompono una conversazione telefonica apparentemente divertente per com-piangere la sofferenza dell’innamorata moglie di Fiesco… Non solo: a chi capita di dover passare davanti alla cattedrale accade di tramutarsi inconsapevolmente in seguace dei Doria oppure dei congiurati; o di accompagnare quale involontario e magari riluttante “valletto” qualcuno dei nobili personaggi. Gli attori, infatti, si muovono con disinvoltura, incorporando fluidamente nelle proprie azioni quei “concittadini” che casualmente ne incrociano percorsi e battute.
Un’apertura all’esterno che non è soltanto palese dichiarazione di quella volontà di essere nella e con la comunità cittadina – testimoniata pure dagli inserimenti di battute in dialetto genovese nella traduzione della tragedia realizzata dallo stesso Sciaccaluga – ma altresì azzardo registico: ideare una messinscena anch’essa dalle maglie larghe, capace di accogliere e tramutare in valore aggiunto creativo e significativo i possibili e imprevedibili “accidenti” generati dalla scivolosità dello spazio pubblico.
Un’impostazione registica che combina la precisa raffinatezza delle luci – grazie alle quali Aldo Mantovani rivela la bellezza recondita della piazza – e del succitato videomapping, alla rumorosa imprevedibilità dei movimenti della piazza; l’accurata ed estrosa eleganza dei costumi al casual estivo dei passanti estemporanei; gli applausi ricorrenti e sentiti degli spettatori “ufficiali” alle risate e alle urla che accompagno le conversazioni dei clienti dei ristoranti.
Gli elementi esterni anziché “disturbare” la messinscena, ne diventano parte, concorrendo alla composizione di un quadro vivo della città di Genova, fondale della tragedia di Schiller che conquista così animata tridimensionalità.
Qualità che dona spessore e rilievo a un dramma che mescola vicende private – il tormentato rapporto fra Fiesco e la moglie, che il protagonista finge di tradire così da poter realizzare più efficacemente il proprio complotto – e questioni politiche; nobili passioni e vili meschinità. Un’opera che condensa tanti motivi Sturm und Drang: amore e onore, nazione e libertà, ma anche individualismo e titanismo – ciò che impedisce al pubblico di simpatizzare senza se e senza ma con il protagonista è proprio il sospetto che la sua ansia di eliminare il dispotismo dei Doria sia accompagnata da un superbo superomismo ante-litteram.
Sentimenti forti con i quali il pubblico – compreso quello che, passando lì per caso, ha poi deciso di accomodarsi sui lati della scalinata della cattedrale – empatizza senza ritrosie, anche grazie alla generosa prova del corposo cast, impegnato in rapidi e faticosi spostamenti – dal palazzo scendono sulla passerella, escono e poi riappaiono dalla strada a fianco della cattedrale – e guidato dal Fiesco di un Simone Toni che, infortunatosi durante la prima replica, non ha lasciato che la stampella con cui è costretto a camminare sottraesse energia alla propria interpretazione.
Ed energico è nel complesso tutto lo spettacolo, due ore che trascorrono veloci fra complotti e colpi di scena, amore e politica, potere e anelito libertario: una città che, rivivendo le vicissitudini del proprio passato, ri(scopre) una propria identità, positiva e non escludente. Il Fiesco di Sciaccaluga per lo Stabile di Genova si propone così quale contemporaneo esempio di un possibile e gramscianamente fertile teatro “nazional-popolare”, in cui la comunità possa riconoscersi, mettersi in discussione e riplasmarsi.
LA CONGIURA DEL FIESCO A GENOVA
di Friedrich Schiller
versione italiana e regia Carlo Sciaccaluga
scene e costumi Anna Varaldo
musiche Andrea Nicolini
disegno luci Aldo Mantovani
video Davide Riccardi
interpreti Simone Toni, Aldo Ottobrino, Barbara Giordano, Roberto Serpi, Irene Villa, Andrea Nicolini, Francesco Sferrazza Papa, Silvia Biancalana, Maurizio Bousso, Marco Grossi, Melania Genna, Chiara Vitiello
produzione Teatro Nazionale di Genova
Genova, piazza San Lorenzo, 30 giugno 2021