SUSANNA PIETROSANTI| Si è conclusa il 12 luglio, nella location suggestiva dell’Anfiteatro Triangolo Verde di Legoli, l’edizione 2021 del Festivaldera che, gemellato quest’anno con la rassegna 11 Lune di Peccioli, ha condotto gli spettatori attraverso luoghi inediti della campagna toscana e attraverso le tappe di una lunga storia frutto della penna di Michele Santeramo. Si tratta in realtà della continuazione della storia che aveva preso avvio due anni fa, nel 2019, nella quale vari personaggi, poco più che persone, – titolo del progetto, appunto –, forniscono la loro versione della vicenda che li intreccia e li muove. Protagonista una misteriosa figura infantile, Salvo, nove anni, venduto dai suoi genitori a una clinica che intende asportarne gli organi, evaso, visitatore inatteso di chi non lo aspettava più, i genitori colpevoli, e poi in struttura circolare di nuovo steso sul lettino operatorio, dove un esito speciale lo vedrà protagonista.
Questa, in breve, la trama. Sul palco, in varie serate, il plot si declina tra i monologhi di cinque personaggi che ci raccontano la loro versione della storia. Angelo, protagonista del primo monologo, è Luca Zingaretti, colui che salva il bambino dalla “fattoria” dove veniva tenuto in attesa di essere trasferito in clinica, lo porta a casa, gli fa brevemente da padre, poi, naturalmente, deve compiere il viaggio a ritroso, e riconsegnarlo. Fabrizio Gifuni è Italo, il padre/clown; Vittoria Puccini è Greta, la madre che ha abdicato alla maternità; Marco d’Amore incarna lo stesso Salvo e infine Toni Servillo è Candido, il chirurgo.
I monologhi sono insieme il punto di forza e di debolezza del Festival. Compongono una lunga catena di effetti complessi, si contraddicono rivelando le mille sfumature della vicenda, sono costruiti, specialmente quando si mantengono nella struttura tradizionale, con sicura maestria. Si riconoscono le particolarità del fraseggio di Santeramo, le martellanti ripetizioni a litania («figlio che ti ho venduto»… «bambino mio») che creano un ritmo semipoetico nel testo e sfidano la bravura degli interpreti a vivificarle. È chiara anche l’articolazione del tema base, l’innocenza, che perdiamo non sapendo come e che pure manteniamo non sapendo come, perché compiendo atti incredibilmente crudeli siamo «insieme comprensibili e imperdonabili».
Sono affascinanti i riferimenti letterari, la ungarettiana «quiete accesa» che gli occhi di Salvo rivelano, oppure la ripresa del Padre Nostro che il protagonista di Affabulazione di Pasolini pronuncia disperato («Padre nostro che sei nei cieli/guarda tuo figlio che, in terra, è padre») qui affidata in parafrasi e variazione all’interpretazione magistrale di Servillo che snoda la sequela di «vòltati, Dio, guarda che schifezza che facciamo» sommesso e incandescente, come se ogni parola fosse una goccia bruciante sulla pelle del pubblico in sala.
Ma purtroppo la struttura generale del lavoro è spesso friabile, le contraddizioni nel gioco di specchi si manifestano in modo disturbante, l’onnivora ampiezza dei testi spesso sfiora la pesantezza, o la monotonia, o addirittura la retorica. Il materiale verbale, non sorretto dalla struttura degli spettacoli (attore fermo al microfono e rari effetti di luce e l’apporto, prevedibile ormai, del sax di Marco Zurzolo e del pianoforte di Piero de Asmundis), diventa schiacciante. Più un peso da sollevare, un lazo da far roteare, che un appoggio da sfruttare. La catena di interpreti lo affronta, ognuno con i propri mezzi e il proprio talento. E forse la lezione migliore che queste lunghe sere di teatro ci offrono è proprio una lezione su come si debbano rapportare autore e interprete. Al contrario di quanto potremmo credere e di quanto molti autori di teatro hanno sostenuto, in questo caso il valore aggiunto non è la capacità dell’interprete di farsi veicolo neutro del testo e lasciarlo parlare ma è la capacità di impugnare il testo, costruire un personaggio, creargli un respiro, una cadenza, un accento, un modo di star fermo o di muoversi, e viverlo. Allora il personaggio invade il palco, non dice il monologo ma lo diventa.
Stellare Fabrizio Gifuni, che offre la lezione di metamorfosi più meditata e incisiva di questa edizione, infilandosi sottopelle i sussulti di un padre clown disperato e feroce, l’esuvia del quale padre non lascia mai cadere se non nel momento della standing ovation finale, con quindici chiamate e il pubblico esterrefatto dall’alto stile del fenomeno teatrale appena consumatosi. Un maestro Toni Servillo, il cui attacco di monologo («Vieni, entra, non ti preoccupare. Siediti qua, ti va? Come ti chiami?») sommesso, a mezza voce, senza nessuna sbavatura, in equilibrio su un filo invisibile, fa fare a tutto il pubblico un istantaneo salto di dimensione in un paese altro che non riconosciamo.
La corda a nodi del lavoro ci regala inoltre l’autenticità di Luca Zingaretti, la dolcezza nevrotica di Vittoria Puccini, la corposità viva dell’interpretazione di Marco d’Amore, al quale è affidata anche la regia dell’intero evento. Assistere al loro lavoro nell’arena all’aperto del Teatro Era (Zingaretti e Gifuni), nell’Anfiteatro Fonte Mazzola di Peccioli (Puccini e d’Amore) e infine nell’Anfiteatro Triangolo Verde di Peccioli è un privilegio. Una grande festa di teatro cui il pubblico ha partecipato numeroso, dato consolante per questa fase di ripresa.
FESTIVALDERA 2021
drammaturgia Michele Santeramo
regia Marco d’Amore
musica Marco Zurzolo
interpreti Luca Zingaretti, Fabrizio Gifuni, Vittoria Puccini, Marco d’Amore, Toni Servillo
27 e 30 giugno Anfiteatro Teatro Era, Pontedera
5 e 8 luglio Anfiteatro Fonte Mazzola, Peccioli
12 luglio, Anfiteatro Triangolo Verde, Legoli