GILDA TENTORIO | Si è conclusa il 12 luglio 2021 a Milano la rassegna Stanze, iniziativa quasi decennale di Alberica Archinto e Rossella Tansini (in collaborazione con Alkaest, la qui la nostra intervista) che porta il teatro fuori dai luoghi canonici, alla scoperta di angoli nascosti della città: laboratori artistici, case private, fondazioni culturali, biblioteche, sono “stanze”, cioè piccoli universi e scrigni intimi che il teatro può abitare, rivelando nuovi orizzonti.
L’estate milanese 2021 di Stanze si è svolta presso il Centro Artistico Alik Cavaliere nel cuore della metropoli. In questo ex-convento seicentesco si apre un giardino quadrato con alberi da frutto, affiancati dagli alberi-sculture di Alik Cavaliere (1926-1998), in un raffinato dialogo fra realtà e finzione.
Ospiti di eccellenza sono i Sacchi di Sabbia, eclettica e premiata compagnia toscana che accosta tradizione popolare e ricerca, sperimentalismo e leggerezza. Memorabile il loro Sandokan al tavolo di cucina, dove verdure e utensili diventavano armi, personaggi e paesaggi, in una vertiginosa ed esilarante carambola. Dal 2016 il regista Massimiliano Civica li ha coinvolti in una trilogia che è un tuffo nell’immaginario greco antico: dopo i Dialoghi degli dèi (da Luciano di Samosata) e l’Andromaca di Euripide, ecco infine un pezzo da novanta: I Sette a Tebe di Eschilo. Riusciranno i nostri eroi a farci sorridere e ad aprire squarci inediti sulla drammaturgia del più antico fra i tragici?
La storia è nota: l’acerrima discordia tra i due fratelli Eteocle e Polinice, prole maledetta di Edipo, porta inevitabilmente alla guerra, civile e fratricida. Tebe, dove regna Eteocle, è assediata dal fratello, sostenuto dagli Argivi. Ciascuna delle sette porte di Tebe è difesa da sette guerrieri, che affronteranno in duello altrettanti campioni nemici. Si tratta di una tragedia immensa, molto amata dai filologi ma poco rappresentata per la sua staticità. Nulla di più lontano dall’effervescenza dei Sacchi di Sabbia, che però anche questa volta riescono a sorprendere.
Nella scenografia del giardino naturale-artificiale sono presenti soltanto quattro sedie e un treppiede con due scudi di cartone. Tutto il resto sarà plasmato grazie alla capacità affabulatoria dei nostri, sicuri nel controllo di tonalità sempre nuove, fra le montagne russe di un alto poetico e un basso comico, che magicamente convivono. Non si tratta infatti di una parodia alla ricerca della grassa risata del pubblico, ma di una fine costruzione che dosa e mescola i vari ingredienti. Lo scopo non è dissacrare Eschilo ma illuminarlo nell’oggi, mettendo semmai alla berlina certi habitus mentali del mondo contemporaneo.
Sandali, tuniche nere e fazzoletto in testa, prendono posto i tre attori che interpretano il Coro delle donne tebane. Giulia Gallo rimprovera le compagne, gli spassosissimi Gabriele Carli e Enzo Iliano, che si stringono nello scialle come prefiche addolorate. La Corifea vorrebbe convincerli a ribellarsi al ruolo stereotipato della donna piangente e vittima per prendere posizione ma i due sono incerti e timorosi. Esilarante la scelta di accostare alle tonalità toscane il dialetto napoletano (di Iliano), una lingua cangiante da manipolare: canto lamentoso, meraviglia, terrore, affetto ardente e partigianeria.
Ed ecco che in scena entra addirittura Eschilo (Giovanni Guerrieri), compassato e severo. A nulla valgono le suppliche – «A piagnere non ce la facciamo cchiù» – e la proposta irriverente: invece dei Sette a Tebe, che senz’altro farà versare fiumi di lacrime, non sarebbe meglio Sette spose per sette fratelli? Naturalmente Eschilo sarà irremovibile e quindi la tragedia si farà.
Questo divertente incipit metateatrale (che ricorda alla lontana il dialogo di Pirandello con i suoi personaggi) con leggerezza già pone domande essenziali. Quali corridoi di vicinanza occorre scavare per far parlare Eschilo al pubblico di oggi, che spesso preferisce la levità consolatrice dell’happy end all’impegno di cimentarsi con un classico? Come può risuonare nell’attuale iper-sensibilità del politically correct il grido di Eteocle «Mai e poi mai voglio avere a che fare con la genía delle donne»? Eschilo è sessista e censurabile? Se l’antico è troppo lontano da noi, meglio farlo tacere? Ovviamente la risposta è no, perché la tragedia è un insegnamento alla città degli spettatori. Negli occhi di Eschilo (coperti da occhiali scuri) riverberano ancora le immagini cruente della battaglia di Salamina, che fu sì un trionfo per Atene ma qui tanti «iovani pugnaci», come dice nel suo linguaggio volutamente arcaizzante, hanno perso la vita. La tragedia quindi attraverso il mito voleva parlare all’Atene contemporanea e metterla in guardia dall’orrore della guerra, e il messaggio antibellico è valido ancora oggi.
Statene certi: nelle mani dei Sacchi di Sabbia non sarà una delle solite “tragedie greche”, ma un gioco, una “commedia tragica” statica eppure mobilissima, perché i personaggi continuano a entrare e uscire dal testo, che viene composto e ricomposto in una vitalità impressionante. Alle citazioni autentiche e solenni degli Stasimi poetici, si alternano con naturalezza malintesi verbali e sberleffi, cortocircuiti di senso grazie ad anacronismi e guizzi comici.
Godibilissima è la relazione sui guerrieri. In Eschilo a descrivere gli eroi e gli scudi, ognuno ricco di simboli arcani, era il messaggero. Qui invece, come fossero in alto alle mura (forse un riferimento all’Iliade?), sono le due corifee ad avvistarli da lontano e a commentare. E allora sciorinano le genealogie come in pettegolezzi da comari, si soffermano su dettagli fisici – «Marò, quest’è più grosso assai e non ci passa dalla porta!» –, con iperboli e paragoni non proprio ortodossi (il leone sullo scudo somiglia a quello della Metro Goldwyn Mayer), e così sciolgono la tensione e la solennità reverenziali per il culto virile della guerra. Ad accompagnare e completare la descrizione sono esibiti due pupazzi con tanto di elmo e scudo con un effetto comico e anti-eroico. Questi terribili duelli avvengono tra fantocci e la guerra dunque sembra ancora più insulsa.
Il meccanismo monotono e scontato per cui l’Argivo muore sempre, viene riassunto nel punteggio, come fossimo ai rigori di una partita. Ma il duello finale è quello decisivo e tragico, per cui occorre spogliarsi degli orpelli del comico. Non saranno più i pupazzi ad affrontarsi, ma «frate contro frate» in carne e ossa: Carli e Iliano, tolto il fazzoletto, si ergono ritti e immobili con lo scudo di cartone. L’atmosfera viene ricreata dalla voce della Gallo, che intona una dolente ballata composta da Woody Guthrie (Don’t kill the Baby & the son). Guthrie rievoca un terribile atto di razzismo nell’Oklahoma del 1911, quando la folla linciò una madre e il figlio quattordicenne e i loro corpi impiccati furono appesi su un ponte. Il vento è ancora carico delle grida di supplica della madre, travolte dalla furia omicida. Anche allora un pianto di donna, nel panorama desolato di una guerra fratricida.
Basta un intarsio musicale per legare passato e presente e creare un senso sospeso di ritualità che convoglia al resoconto del fratricidio. Alla fine i due fratelli si allacciano in uno scontro di corpi e scudi e l’impeto dell’assalto si confonde in un abbraccio. Forse, in questo giardino di Milano-Tebe, dopo il riso e la tensione, adesso è catarsi.
SETTE A TEBE
da Eschilo
Spettacolo di I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Iliano
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi, in co-produzione con I Sacchi di Sabbia e il sostegno della Regione Toscana
nell’ambito del Progetto Stanze
Milano, Centro Artistico Alik Cavaliere
12 luglio 2021