SUSANNA PIETROSANTI | A Firenze, nell’ex-manicomio di San Salvi, si è conclusa il 15 luglio la IV edizione del Festival Storie interdette: ottima la risposta del pubblico, pur con i posti contingentati imposti dalle normative anti-Covid. Testimonianza di quanto la ricerca fresca e viva di Chille de la Balanza sappia sempre toccare l’interesse e la partecipazione.
In una giornata finale impreziosita dall’incontro con Franco Rotelli, già braccio destro di Franco Basaglia, che ha presentato il suo ultimo libro Quale psichiatria?, si è definita la classifica tra i quattro giovani artisti vincitori in gara al Festival. Primo classificato Luca d’Arrigo con il suo monologo Che l’A. Pace sia con voi. Seguono due secondi classificati ex-aequo: Alice De Matteis con Una conversazione e Matilda Mancuso con Social room. Con un punteggio non molto inferiore la quarta concorrente, Chiara Acaccia, con il suo EXIsT.
I quattro giovani artisti hanno giocato un gioco complesso realtà-drammaturgia, declinato in alcune varianti.

Luca d’Arrigo ha raccontato il suo incontro con una ragazza ipovedente desiderosa di raggiungere l’albergo Pace, ossimorico al suo rapporto tempestoso con il suo ragazzo: rapporto violento e doloroso che nessun ente di umana giustizia riesce a temperare. Matilda Mancuso ha innestato splendidamente il linguaggio del video alla sua performance: il brano video in cui dall’abbraccio si crea un mostro che in realtà, inseguendola, non riuscirà a sconfiggerla, è una dei regali più intensi della serata. Alice de Matteis ci aiuta a riflettere sul tempo, sulla nostra tentazione alla fuga, sul bisogno, invece, di aspettarlo, di confrontarsi con esso, come con un anziano parente che ci parlerà ancora, come un groviglio di fili rossi che manipoleremo con sofferenza e piacere. Chiara Acaccia ha usato il suo corpo in un vestitino bianco come base per dipingere il mondo, i nostri ieri, la pandemia, le parole/covid che ci hanno pugnalato nei mesi appena trascorsi, gabbia verbale tradotta in scena da pali di legno sempre più metaforicamente e fisicamente incombenti.

 

Intervistato da PAC, il vincitore, Luca d’Arrigo ha acconsentito a farci entrare nel suo laboratorio creativo.

Quali sono state le modalità con cui è riuscito a gestire un materiale evidentemente autobiografico rendendolo storia catturante, monologo teatrale?

Per quanto riguarda il rapporto con il materiale autobiografico, la vicenda narrata all’interno del monologo non contiene in sé nessun elemento frutto di fantasia; della vicenda realmente avvenuta ho solamente omesso certi elementi che ritenevo meno essenziali ai fini della riproposizione teatrale della storia. Ciò è nato da una duplice esigenza: da un lato sapevo di dover realizzare ai fini del bando un corto teatrale della durata massima di 20 minuti, per la quale non potevo permettermi di superare certi limiti di estensione della drammaturgia; dall’altro, era mia volontà trasportare al meglio la vicenda autobiografica verso la sfera del “mito teatrale”.

Una parola piena di significato

Scelgo la parola mito non a caso: per me era fondamentale che la vicenda raccontata sul palcoscenico avesse in sé una serie di elementi che evidenziassero al meglio la sua natura mistico-esistenziale, senza però tradire la realtà dei fatti.
La vicenda per come realmente si è svolta nei suoi vari elementi – la quasi totale cecità della ragazza, la ricerca dell’Hotel che aveva quale nome proprio la parola Pace – conteneva del resto in sé una carica tale da renderlo un evento assieme dentro e fuori dalla realtà. E quando l’ambulanza con sopra la ragazza si è allontanata, io mi sono realmente sentito protagonista di un sogno felliniano, stordito da quanto mi era successo in quelle ore.

Come ha gestito il rapporto realtà/teatro nella fase di scrittura drammaturgica?

Una delle direttrici fondamentali del rapporto tra il reale e il teatrale nella stesura della drammaturgia è stata la consapevolezza di dover sempre trattare con la giusta sensibilità e responsabilità un fatto realmente accaduto riguardante persone realmente esistenti. Mentre scrivevo mi ronzavano in testa questioni e domande: con quale diritto si possono portare sulla scena “estratti di esistenza” realmente vissuta? Cosa può giustificare questo “risucchio di esistenze altrui” verso il palcoscenico?

E poi ha deciso che era legittimo. Per quali motivazioni?

Penso che, se si sceglie di portare una storia realmente accaduta su un palcoscenico, è perché in essa si sente un portato tale da consentire il passaggio dalla sfera biografico-privata a quella pubblica e politica (intendendo quest’ultimo aggettivo nella sua accezione più generale). Se ho scelto di raccontare questa storia è stato perché poteva, nella sua peculiarità, illuminare le condizioni di migliaia di persone che vivono particolari situazioni di emarginazione sociale. Una vicenda singola si rivelava una lente che permetteva di evidenziare determinate ombre della nostra realtà: l’esclusione di fatto di persone in stato di disagio socio-psicologico dalla tutela della sfera pubblica, una certa ignavia da parte di una componente dei rappresentanti stessi dello Stato di fronte a situazioni di questo tipo, un’indifferenza ostile che fa ancora più male riguardo l’atteggiamento di parte degli apparati statali di fronte all’enorme problema delle violenze subite da donne in contesti relazionali-domestici.
Sia chiaro che non intendo dire che tutte le forze dell’ordine siano accomunate da questo problema, credo però che gli episodi nei quali membri delle stesse non reagiscono in maniera adeguatamente opportuna ed efficace, andando oltre una semplice procedura formale, siano abbastanza frequenti da mostrare un problema reale che necessita di essere affrontato e discusso.

l’A. Pace sia con voi. Foto di Cristina Giaquinta

Il tema della giustizia negata appare con grande evidenza nel lavoro…

Uno dei momenti di maggiore smarrimento da me vissuto durante quella serata è stato proprio il sentirsi abbandonati dai rappresentanti di quello Stato che in teoria dovrebbe intervenire di fronte a situazioni del genere. Si è trattata di una vera e propria sensazione di tradimento, nella quale io e la ragazza ci siamo trovati vittime di una ingiustizia tanto più tremenda in quanto mascherata dietro l’abito di una correttezza “formale” di procedura.
Le forze dell’ordine da me chiamate a intervenire di fronte a quella situazione di così palese emergenza, se non hanno infatti violato alcuna norma formale, non si sono però spinti di un millimetro verso il campo di quella giustizia sostanziale che costituisce uno dei tratti fondamentali dell’ordinamento del nostro Paese quale sancito dalla nostra Costituzione.
Di fatto, quegli agenti si sono lavati le mani di fronte alla situazione, tagliando fuori me e la ragazza dalla sfera di protezione dello Stato nei confronti della società civile. Di colpo, ci siamo trovati quindi abbandonati in quello che i filosofi politici del XVII secolo chiamavano “stato di natura”, all’interno del quale la società organizzata e lo Stato non esistono e i singoli sono chiamati a cavarsela da soli per la loro stessa sopravvivenza.

Stato di natura e società civile (e, legata a quest’ultima, la presenza attiva dello Stato) appaiono come i due pilastri teorico-pratici dell’intero lavoro.

Ho cercato di fare tesoro dei miei studi universitari alla facoltà di Scienze politiche: nella stesura della drammaturgia ho cercato un “sostegno attivo delle fonti” (Hobbes e Locke, che con le loro opere hanno posto le basi teoriche della concezione dello Stato moderno). In altre parole, ho cercato tanto nella drammaturgia quanto nella messa in scena di rendere evidente e comunicare l’urgenza che ha spinto gli autori alla stesura di quelle opere, che proprio in virtù di tale concretissima urgenza possono così fortemente parlare al nostro presente. Non parole astratte tratte da libri coperti dalla polvere dei secoli, ma principi concreti redatti per rispondere a questioni di vita e di morte (Hobbes scrisse il Leviatano con la memoria fresca della guerra civile che aveva da poco devastato l’intera Inghilterra), di caos e di anarchia, di diritti e di doveri. Al pari di quanto avviene nel testo della nostra Costituzione, per quanto purtroppo a volte essa venga vista e interpretata come una reliquia del passato, più o meno in malafede.
Ora, credo fermamente che ai fini di quest’operazione di manifestazione tangibile della concretezza dei principi uno dei mezzi migliori sia proprio quello teatrale che, in tutta la sua tangibilità di corpo e azione, può riuscire non solo a far empatizzare il pubblico con una  storia, ma anche a farlo ragionare criticamente sulla stessa.

Cosa può dirci di più del rapporto tra empatia e riflessione attiva?

L’A. Pace sia con voi è stato da me scritto e interpretato camminando sempre sul confine tra coinvolgimento e straniamento del pubblico: se ci sono dei momenti in cui il lavoro porta a una maggiore empatia/reazione emozionale da parte del pubblico, la direttrice di fondo era non cadere mai in un facile pietismo che avrebbe avuto come conseguenza l’annacquare in una facile commozione un problema che dovrebbe invece essere sentito come un vero e proprio pungolo della coscienza, che porti prima a farci riflettere e poi a farci agire tanto come singoli privati che come cittadini appartenenti a una società civile e a una comunità statuale. 

C’è comunque una sfaccettatura quasi mistica nel testo…

La scelta di voler vestire di un portato messianico-cristologico la figura della ragazza non è nata solo dalla presenza di certi elementi fuori dal comune della vicenda ma anche e soprattutto dalla volontà di manifestare tutta la concretissima sacralità con cui ci si rivela la realtà di ogni giorno, schiudendoci i suoi aspetti più profondi e ineffabili; e tutto questo, a scanso di equivoci, guardando a quella sacralità fuori da ogni misticismo religioso che nasce dalla straniante consapevolezza di essere minuscole creature abitanti su un altrettanto minuscolo pianeta dell’infinito universo che sempre hanno cercato e sempre cercano di dare un senso alle proprie esistenze: una ricerca di significato nella quale gli esseri umani hanno scelto di unirsi assieme in società e Stati che potessero vincere quel tremendo principio di natura sancito dalla sopravvivenza del più forte.