ILENA AMBROSIO | «Mi fanno male i capelli!» lamentava Giuliana (Monica Vitti), protagonista del capolavoro di Antonioni Il deserto rosso. La constatazione di un malessere pervasivo, talmente invadente da occupare qualsiasi aspetto dell’esistenza, anche quello più banalmente concreto.
Sembra afflitta da un malessere altrettanto dispotico Licia Lanera nel suo Guarda come nevica 3. I sentimenti del maiale, un’insofferenza indisponente che rende nevrotici, scontenti e capricciosi. Sul palco del Teatro Comunale di Novoli, dove il lavoro ha aperto la VII edizione de I Teatri della Cupa, lei è lei e sta con Danilo (Giuva) in una stanza con un divano, una rock band, un maiale appena squartato appeso per le zampe. E la neve, una spessa coltre bianca che ricopre il palcoscenico.
Il lavoro, che trae suggestioni dalla figura di Majakovskij, è l’ultima tappa di Guarda come nevica, trilogia su autori russi iniziata con Cuore di cane di Bulgakov e proseguita con Il Gabbiano di Čechov. Nel primo un mood grottesco avvolge il discorso politico ma anche l’ossessione per la bellezza e la giovinezza in un monologo che, accompagnato dalla musica elettronica di Tommaso Qzerty Danisi, dà prova di un’audace e poliedrica sperimentazione delle potenzialità vocali della performer. Nel secondo, messa in scena corale, si vira più decisamente verso la rotta dell’esistenziale, ma, precisamente, dell’esistenziale artistico: una riflessione sulla disillusione del diventare adulti, artisti adulti, sul ruolo del teatro, sulle aspettative giovanili.
Leitmotiv, appunto, la neve, che cade fitta, gelida; ma viva, animata. Era il 2018 con Cuore di cane, 2019 con Il Gabbiano. Dopo c’è stata la pandemia e nulla poteva essere uguale. La neve ora è ferma, tutto è fermo: «Saranno le nove, fuori è aprile, io sono chiusa qui e tutta questa neve mi sta seppellendo».
Lo stare di Licia e Danilo in scena, in abiti comuni, senza trucco e senza inganno, le prove di scene fatte per ammazzare il tempo, tutto questo sembra “semplicemente” uno stare, un ingannare la noia sofferta da tutti in quei mesi del lockdown. Ma è solo un pretesto. La stanza in cui sono costretti diventa una ossessiva cassa di risonanza nella quel dare voce – amplificata – al sentimento del proprio essere artisti: «Sono empatica, sento dentro di me i dolori del mondo intero. Sento. Io sento! Sono un’artista».
Cos’è questo essere che chiamiamo artista? A dirlo “l’elefante nella cristalleria”: quel maiale appeso a testa in giù, del quale Danilo – bravo nella sua chirurgica freddezza – descrive con cura l’uccisione: il grufolare straziato, il punteruolo che gli spacca il cuore, il sangue che cola a litri…
«L’uccisione del porco è soprattutto una festa, o un rituale familiare, un’occasione per riunire i propri congiunti» Quella festa, quel rito è il teatro; il porco, animale «empatico… che sente» è l’artista. Licia e Danilo allora si abbandonano al loro essere attori, carne da macello, sacrificio del rito; fanno le prove di uno spettacolo, di spettacoli che sono andati in scena o che non ci andranno mai. E intanto ne affrontano – e, diciamolo, ne gustano – l’aspetto dannato, disperato. La figura di Majakovskij, l’aura di disperazione che avvolge la sua morte, come pure la sua vita e la sua arte, fanno corto circuito con tutto l’immaginario sull’artista maledetto di cui sono emblemi i miti del rock – Ian Curtis e Kurt Cobain, ma potremmo pensare a tutto il cosiddetto “Club 27” – rievocati dalla musica dal vivo della band – un energico trio composto da Dario Bissanti, Giorgio Cardone e Nico Morde Crumor.
«È questo il senso del rock, della spregiudicatezza, del maledetto, che mi fa impazzire. Tutti questi artisti belli e maledetti che non vogliono invecchiare e non vogliono essere sacrificati e allora che fanno? Muoiono da soli. Con quella strafottenza mista a dolore atroce».
Strafottenza e dolore atroce. Licia balla, si dimena, fa impazzire la macchina del fumo che innesca con un telecomando, ride sguaiata, straparla, esasperando il più equilibrato Danilo e, da ogni gesto, da ogni inflessione vocale arrivano strafottenza e dolore atroce. Strafottenza del sistema, delle regole del “teatro di prosa”, delle convenzioni; dolore atroce per il tempo che passa, per una vita votata solo al teatro, per la vecchiaia, per l’invidia violenta verso quelle ventenni alle quali «strapperebbe la carne di dosso».
Non c’è finzione, in questo, tutto è vero. Ma il congegno teatrale non viene rinnegato – del resto siamo in una stanza con un maiale appeso al soffitto e la neve per terra. Si sgretola, semmai, così da mostrare il noumenico di un’attrice che si denuda dei suoi panni di scena; e ciò che c’è sotto non è un “comune essere umano” bensì proprio il suo essere artista che è inscindibile dal suo esistere. Un’essenza squartata, trafitta, che cola il sangue del sacrificio, ribollente della frustrazione ma anche della passione pulsante dell’arte, della dannazione di voler vivere per sempre, ma per sempre giovane; e se è impossibile farlo, allora meglio morire.
Majakovskij scrisse La nuvola in calzoni quand’era poco più che ventenne: un poemetto traboccante di forza lirica, teso, dissacrante, provocatorio. Si abbassano le luci, Danilo, in camice da chirurgo, ha appena descritto una succulenta ricetta di cuore di maiale in padella. Licia veste una camicia gialla, come quella indossata da Majakovskij il giorno del suicidio, si scompiglia i capelli, sale su un podio con microfono e asta a centro scena e inizia il suo concerto da rock star.
Le parole roventi di Majakovskij incontrano la musica rock in un crescendo di aggressività, di rancore, rabbia, erotismo, declinate dalla stupefacente abilità vocale della Lanera.
Davanti ai nostri occhi una trasformazione generata da una volontà di potenza che non smentisce ma anzi si alimenta delle fragilità, delle frustrazioni, delle paure. Licia si dà tutta, senza riserve, con tutto il suo sentire, il sudore, la voce plasmata ad arte, stuprata fino a diventare bestiale, il grufolare di un maiale dilaniato. “Ecco l’artista”, sembra dire, “guardatemi, prendetevi tutto, pure il mio cuore”.
Un dono o uno schiaffo. Ma forse entrambi, lanciati dalla scena con l’esibizionismo e l’egocentrismo di un essere fragile, con il sentire profondo e frustrante dell’artista. Con strafottenza e dolore atroce.
GUARDA COME NEVICA – 3. I SENTIMENTI DEL MAIALE
con Danilo Giuva e Licia Lanera
chitarra e voce Dario Bissanti
batteria Giorgio Cardone
basso Nico Morde Crumor
luci Cristian Allegrini
fonica Francesco Curci
scene Riccardo Mastrapasqua
aiuto scenografo Silvia Giancane
costumi Angela Tomasicchio
regia Licia Lanera
co-produzione Compagnia Licia Lanera, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi
23 luglio 2021