LAURA NOVELLI | Un’arena circense. Fantasmagorica quanto vacillante. Grottesca e insieme sanguigna. Morbida ma violenta. Una waste land dalle atmosfere mediterrnee dove la parabola surreale di un re famelico, usurpatore e violento sposa l’anima di Napoli. O meglio, la sua natura anfibia, sospesa tra Barocco e Pulcinella. In quella  stessa distesa sabbiosa dove, a fine giugno, il Teatro Argentina aveva ospitato la perfomance lituana Sun & Sea (ne abbiamo scritto PAC), il regista Fabio Cherstich ambienta il suo Ubu Re di Alfred Jarry, affidando l’impianto scenico e i costumi alla fervida creatività di Luigi Serafini, architetto e design ben noto, sin dai primi anni ’80, per il libro di culto Codex Seraphinianus, ristampato nel 2013 da Rizzoli.

Opera di per sé stessa quanto mai rivoluzionaria e dissacrante (venne messa in scena la prima volta nel 1896 al Théâtre de l’Œuvre di Parigi da Lugné-Poe), la farsa di Jarry nacque sì in ambito studentesco ma divenne, subito dopo il controverso debutto, uno dei pilastri delle avanguardie artistiche del primo Novecento: «una macchina da guerra contro il teatro moderno». Contro cioè il teatro borghese, le convenzioni sceniche ottocentesche, gli istrionismi del grande attore, le trame rassicuranti dei drammi larmoyant e delle piéce a ben faitimperanti alla fine del XIX secolo. Piazza pulita di tutto. Un colpo di spugna geniale. Di contro, impazzano sul palcoscenico personaggi burattineschi che, non scevri da echi shakespeariani (Macbeth, in particolare) e muovendosi in una non meglio definita “Polonia”, giocano a rappresentare le nefandezze di un militare goffo e ambizioso il quale, fomentato dalla terribile moglie, usurpa il trono ad un re legittimo, ne ammazza i figli, tradisce le promesse fatte al popolo, ne combina di tutti i colori, salvo poi finire esule e schiavo.

Testo amatissimo dai registi del Novecento, Ubu Re ha attraversato la civiltà dello spettacolo occidentale con un’energia tutta sua e propriamente sua, prestandosi di volta in volta a letture sceniche sempre diverse e sempre originali. Ricordiamo, solo per fare qualche esempio, il memorabile spettacolo in cui Peter Brook metteva insieme questo titolo con il più tardo Ubu incatenato (era il 1977); oppure il patinato e lunare allestimento di Antoine Vitez del 1985 o quello, visionario e sgargiante, di Ugo Gregoretti prodotto dallo Stabile di Torino nel 1988. Da questa breve lista restano fuori ovviamente decine di altre produzioni. E ci riserviamo ancora una digressione per un ricordo amato e doveroso: il doppio lavoro che le Albe hanno dedicato a Jarry, cogliendo tutta l’anima acremente gioiosa, complessa e nobilmente adolescenziale della saga di Ubu. Alludiamo a I Polacchi (1998) realizzato con adolescenti italiani e a Ubu Buur, messo in scena invece con  un nutrito gruppo di ragazzi e ragazze senegalesi (2007).

Ubu Buur 2007. Foto Mario Spada

L’energia appunto. L’energia che nasconde paure e misfatti e angosce ed errori. L’energia che toglie muffa ai musei. Che travalica frontiere. Che scorre e fa scorrere, malgrado tutto. Provocando cambiamenti e illusioni.

Ecco, potremmo dire che questo nuovo Ubu Re presentato all’Argentina nelle sere scorse (produzione del Teatro di Roma), pur se ricco di belle intuizioni, manca a nostro avviso di energia. E malgrado le premesse del lavoro siano assolutamente originali, argute, sensibili e, soprattutto, visionarie. Cherstich, artefice in passato del felice esprimento OperaCamion (format di opere liriche viaggianti che ha realizzato alcune versioni coraggiose de Le nozze di Figaro e del Don Giovanni), sembra infatti intenzionato a disegnare la fisionomia di un cabaret delle attrazioni volutamente privo di un centro propulsivo unico.

Foto Claudia Pajewski

Complice il massiccio intervento creativo di Serafini, lo spazio si dilata in tutte le dimensioni possibili: tubi che vomitano personaggi in scena, caratteri che si ingigantiscono fino a diventare catafalchi, oggetti sparsi ovunque, l’arenile usato ora come palude ora come deserto dei segreti, ora come ring di combattimento. Siamo dunque in un sorta di scatola barocca in cui gli orrori e le nefandezze di queste marionette, qui decisamente umanizzate, rischia però di disperdersi in troppe linee di fuga; in troppi centri espressivi che tolgono unità, sineticità, mordente al tutto, consegnando la sensazione che manchi un sovratono unitario.

Anche la lingua si riempie di commistioni, di aperture al francese e al napoletano e l’interpretazione di Massimo Andrei (Padre Ubu) e Gea Martire (Madre Ubu) non può che cavalcare la scia partenopea diffusa nell’intero spettacolo. E se l’impasto surreale dell’opera resta alla base del lavoro, esso viene, appunto, minato da stimoli e stili estremamente lontani tra loro. L’epicità, per esempio, della figura di Jarry che appare in bicicletta e parla direttamente al pubblico (affidata a Julien Lambert) è una chiara citazione di quanto avvenne realmente la sera del debutto parigino, ma è anche un richiamo a Brecht, allo straniamento. Vi si accostano poi echi del carnevale napoletano, macchiettistiche scene di duelli, geometrie di costumi simili a baldacchini e, al contrario, la scarnezza di momenti più intimi e lirici, destinati a svaporare senza sufficiente intensità.

Insomma, in questo lavoro si respira senza dubbio la lezione della patafisica (d’altronde, lo stesso Serafini è membro del Collége de Pataphysique) ma qualcosa di Jarry sembra andare smarrito. Peccato!

 

UBU RE
di Alfred Jarry

traduzione di
Fabio Cherstich, Luigi Serafini, Tommaso Capodanno
regia Fabio Cherstich
scene e costumi Luigi Serafini
con Massimo Andrei, Gea Martire, Sara Borsarelli, Marco Cavalcoli, Alessandro Bandini, Francesco Russo
e con Julien Lambert

musica di Pasquale Catalano
assistente alla regia Tommaso Capodanno

assistenti alle scene Marta Montevecchi, Alessandra Solimene
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Teatro Argentina di Roma
20-30 luglio 2021