ELENA D’ANGELO | Per la sedicesima edizione Short Theatre ha scelto come suo territorio d’indagine la voce, non come oggetto da vivisezionare, ma come soggetto che agisce sullo spazio urbano. Non l’artista che esplora le possibilità della voce, bensì la voce che scardina la visione da suoi consueti percorsi, senza che si possano in alcun modo avanzare obiezioni teoretiche.
E questo è quello che è accaduto il 3 settembre, intorno alle 18, a Largo Ascianghi, in una Trastevere di inizio settembre, ripresa dalla foga dei tram e degli aperitivi, dei motorini elettrici, delle comitive, del vento di un temporale che poi non ce l’ha fatta a venir giù.
Sono nella piazzetta.
Sofia Jenrberg, compositrice e performer, affacciata al balcone delle aquile del WEGIL, con il lungo vestito che la copre tutta dalla testa ai piedi, è alta almeno due metri, è gigante, è immensa, eppure minuscola. Con il solo ausilio di un microfono e di tracce sonore crea dal nulla un’abbazia gotica; lo fa utilizzando sapientemente tecniche molto precise. Il canto diafonico, per primo, poi sonorità etiopi e vocalizzazioni non verbali sullo stile del jazz moderno. Una babele affascinante e allo stesso tempo disturbante, martellante come uno che ti picchia sulla spalla per chiamarti, come quelli che ti urtano sull’autobus. Qualcosa che ti costringe a realizzare che “Hey,non ci sei solo tu qui”. Coscienza attiva.
La voce di lei si lega coi suoni tutti intorno, non si sovrappone né copre i rumori, ma si mescola a essi, come se fosse necessaria: la necessaria trama che dà finalmente un senso agli avvenimenti sonori della città. Cosa succederà quando lei se ne andrà? Piomberemo nuovamente nel caos? Il pubblico della Piazzetta in adorazione è dentro questo quadro a olio dove tutto è fluido, elettrico e allo stesso tempo immobile come durante una Messa domenicale.
L’ascolto è un’esperienza che si precisa in ogni singola parte del corpo – nella mani, nei piedi, persino nei capelli -, tuttavia sfugge, non si può toccare. Chiunque è passato di lì non ha potuto evitare, anche solo tangenzialmente, di essere coinvolto in questo Chasing the Phantoms – mai titolo fu più azzeccato.
Entro dentro CRATERE, spazio relazionale realizzato all’interno del WEGIL, allestito per accogliere performance, dibattiti, letture, conferenze.
Mi danno un bicchiere di plastica trasparente con dell’acqua e delle precise istruzioni: devo sussurrare all’interno il nome di una persona che voglio tenere con me. Poi col pennarello, come alle feste di compleanno, scrivo sul bicchiere un segno che che dirà al mondo che quel bicchiere è mio. Tutti facciamo lo stesso, poi ci sediamo.
I posti sono segnati da cuscini in terra. La sala è illuminata dalla luce di fuori, c’è musica di sottofondo, alcuni operatori audio/video stanno catturando immagini e suoni, qualcuno mi offre dello zucchero filato fatto lì per lì con una macchina piazzata sul fondo della sala. La fontana zen satura lo spazio sonoro restante col suo gorgoglio che si insinua tra le chiacchere del pubblico, prima sommesse poi via via sempre più rilassate.
Osservo quella tipica situazione da spazio performativo, in cui non si sa mai da dove arriverà l’azione vera e propria. Non si sa di preciso dove guardare, così si guarda un po’ tutto, primi fra tutti si guardano gli altri. E i dettagli iniziano a diventare enormi macchie dalle quali è impossibile distogliere l’attenzione. Calzini di spugna colorati tirati su fin quasi sotto alle ginocchia, infilati in sandali aperti. Li hanno quasi tutti. Identikit del performer.
Mentre mi perdo dietro questa riflessione – potrei dire con estrema certezza chi nella sala è danzatore – arriva Loreto Martinez Troncoso. Non arriva propriamente, bensì appare, distruggendo tutte le mie teorie: non ha calzini di spugna. Ferma nello spazio, esplora i nostri sguardi, costringendoci in un silenzio di pietra. Un racconto muto senza interpunzioni; una pagina di Joyce letta tutta d’un fiato in quel corpo quasi immobile, trafitto dal micromovimento del respiro.
Cosa sta facendo di preciso? Ci sta obbligando a rispondere alla sua presenza con la nostra, a entrare in relazione con la sua fissità – nessun corpo è davvero immobile, è sempre percorso da tensioni dovute all’aggiustamento della posizione di equilibrio, posizione quanto mai illusoria. Crea col suo corpo lo spazio necessario alle nostre relazioni, tutto si ridimensiona e lo sguardo raggiunge finalmente il privilegio di una direzione.
La potenza del non atto ci impone una nudità quasi imbarazzante. La nudità dell’Alma, per l’appunto. I suoi occhi cercano i nostri, uno per uno, nessuno può sfuggire a una così stringente necessità di un qui e ora che tutti, io per prima, bramiamo con ogni fibra del nostro corpo.
CHASING THE PHANTOMS
di e con Sofia Jernberg
é-cri-tures: ALMA (PRIMI TENTATIVI)
di e con Loreto Martinez troncoso
con il supporto di Reale Accademia di Spagna a Roma
3 settembre 2021
spazio WEGIL – Roma
per Short Theatre 2021