RENZO FRANCABANDERA | Sarà presentato giovedì 9 settembre alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti fuori concorso il cortometraggio Preghiera della sera (Diario di una passeggiata) diretto da Giuseppe Piccioni.
Il corto è nato nel corso della realizzazione dello spettacolo teatrale Promenade de santé scritto da Nicolas Bedos prodotto da Marche Teatro, con Filippo Timi, Lucia Mascino, con la regia di Giuseppe Piccioni.
Dallo spettacolo teatrale, di cui ci eravamo peraltro occupati, portato in scena a settembre 2020 nel periodo a cavallo delle due ondate di pandemia da Covid-19 è stato tratto quindi il cortometraggio prodotto da Esmeralda Calabria per Akifilm, da Velia Papa per Marche Teatro con Rai Cinema, e sostenuto da Comune di Ancona, Regione Marche e Fondazione Marche Cultura.
Protagonisti del cortometraggio sono gli stessi interpreti dello spettacolo, Lucia Mascino e Filippo Timi; soggetto, e anche la sceneggiatura e la regia restano affidati a Giuseppe
Piccioni.
Marche Teatro, non è nuova ad operazioni di commistione tra cinema e teatro. Già nel 2019 l’ente teatrale aveva collaborato alla produzione del film Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico girato quasi integralmente a Villa Nappi a Polverigi e aveva prodotto il docufilm diretto da Angelo Loy Paragoghé|Depistaggi, tratto dall’omonimo spettacolo di Marco Baliani, oltre alla serie tv tratta dallo spettacolo teatrale 456 di Mattia Torre e alla collaborazione con Cinematica alla produzione di Scalamare, il corto del grande coreografo Jiri Kylián.
Abbiamo intervistato Giuseppe Piccioni e Velia Papa a pochi giorni dalla proiezione.
Piccioni, come nasce l’idea del film a margine dello spettacolo teatrale? Quanto il teatro è testo e quanto è pretesto in questo lavoro?
L’idea del film nasce nei primi incontri con Lucia e Filippo, poco prima dell’estate, quando ci è sembrato di cogliere i segni, ancora incerti, di una possibile ripartenza. Testimoniare l’avventura di tornare al lavoro, in quelle particolari condizioni, mi è sembrata un’occasione, qualcosa che, già dalle prove fatte in casa, si accompagnava a un sentimento condiviso di lieto stupore. Non c’era un piano studiato a tavolino, bisognava filmare, raccontare quel clima, senza preoccuparsi del punto di arrivo, se non il momento in cui sarebbe andato in scena lo spettacolo, con la sensazione che avevamo i giorni contati e una nuova interruzione, di lì a poco, avrebbe di nuovo congelato il teatro italiano.
Poi c’era l’idea di una voce da me registrata sul cellulare, poco “professionale”, nella forma di un diario, per dare diritto di cittadinanza anche a ciò che apparentemente sembrava inutile, come digressioni, momenti quotidiani, dove in molti casi era presente un’idea di messa in scena, come nelle prove fatte all’aperto, in contesti diversissimi da quelli dello spazio teatrale.
Lo spettacolo un pretesto, ma sì… anche se il film ha nutrito, non so dire in che misura, l’immaginazione, fortificato l’esigenza di una rappresentazione che non fosse in una stretta corrispondenza con il testo di Bedos, e dove anche il cinema potesse fondersi con lo spazio scenico, mettendosi totalmente al suo servizio.
Realmente, cosa si voleva raccontare nel pensiero registico? Se un po’ è vero che il medium è il messaggio, cosa di Promenade racconta il teatro e cosa il film? Cosa si è scoperto del testo con il cinema?
Fin dall’inizio mi è sembrato che il testo di Bedos fosse aperto a un’idea di messa in scena meno rituale, non volevo mai che i conflitti di una coppia suggerissero l’idea inoffensiva che potesse anche solo evocare il tono di una commedia in cui pare di intravedere un paesaggio riconoscibile, che sia quello di un interno borghese o quello, appunto, di una clinica psichiatrica con le sue possibili letture fin troppo ovvie. Niente sociologia, e tantomeno richiami all’attualità o al costume. Forse nello spettacolo c’è una piccola, epica, disperata lotta tra due esseri umani intorno a un sentimento assoluto, e assolutamente patologico come l’amore, patologico e necessario nello stesso tempo. Tutto avviene in uno stato di dormiveglia in cui ci sfugge la distinzione tra ciò che sembra reale e ciò che è solo immaginato. E forse, nascosto, mimetizzato, in qualcosa di quello che vediamo c’è il clima generale che il Paese ha vissuto, mi riferisco alla pandemia, allo stato di cattività, di impedimento, una specie di sogno a occhi aperti.
E per quanto riguarda gli attori? Quali cadenze si sono modificate nelle ripresa davanti alla telecamera? Cosa è stato fatto da loro apposta per la cinepresa e in che modo la cosa ha influito sul recitato scenico, se è successo?
Mah… forse per me è stata un’assoluta iniziazione, ho dovuto dimenticare il mio modo di lavorare nel cinema, quello di preferire l’underplay nel modo di dire le battute e ho scoperto anche, nella voce teatrale, una possibile convincente verità. Impossibile però prescindere dal lavoro di Lucia e Filippo, dalla loro felice, invadente fisicità, dall’andamento musicale dei loro dialoghi. Ma, lo confesso, non sarei riuscito a fare a meno dei microfoni, senza quelli, in alcuni momenti recitati sottotono – anche se sempre con una misurata enfasi – avrei dato allo spettatore l’idea che i due attori stessero parlando di fatti loro.
Sono stato felice di ritrovare nello spettacolo, nel modo di dire le battute, alcune intuizioni che avevamo messo a frutto nelle prove filmate. In particolare poi c’è un’intera scena che è inserita nello spettacolo per raccontare un presumibile momento di realtà nella vita dei due personaggi che viene presentato al pubblico come, appunto, la scena di un film. Tuttavia questa scena non è poi finita nel film, possiamo vederla solo a teatro.
Velia, come è nata questa pazza idea? Il dialogo fra questi due medium è nato per caso, per volontà precisa?
È stata una scelta precisa. Giuseppe Piccioni è soprattutto un regista di cinema. È stato inevitabile, quindi, chiedergli di filmare il processo di produzione, il dietro le quinte dello spettacolo, in un momento, poi, in cui il mondo teatrale era alle prese con la necessità di ricorrere alla camera per potersi mostrare al pubblico. Nel mio caso volevo andare più lontano. Non sono mai stata molto attratta dalla semplice video ripresa del singolo spettacolo. Il teatro sullo schermo perde la potenza, la ritualità e la forza del rapporto scena platea. Volevo invece che venisse raccontata un’altra storia, solo per lo schermo, ma a partire dal teatro.
Devo dire che non è la prima volta che tento operazioni simili. In passato ho prodotto una serie tratta dallo spettacolo 456 scritto e diretto da Mattia Torre. Una bellissima avventura. Mattia, artista straordinario che è venuto a mancare troppo presto, aveva scritto, una sorta di estensione del testo teatrale pensata proprio per lo schermo.
Dopo quel successo aspettavo solo un’altra occasione.
Dove sta, secondo te, il valore aggiunto di questa operazione? Quale prospettiva vedi per questo genere di creazioni crossmediali?
Da tempo sono interessata ai punti di contatto tra il cinema e il teatro, anche perché credo che i due ambiti debbano poter dialogare e mantenere sempre viva l’attenzione dell’uno sull’altro. Una pratica che dovrebbe diventare consuetudine in un continuo nutrirsi reciproco. Il teatro italiano potrebbe ricavare un grande vantaggio da questo avvicinamento in termini di prestigio culturale e popolarità.
Il cinema, d’altra parte, da una maggiore attenzione alla pedagogia e alla pratica teatrale, ricaverebbe interpreti più versatili e una maggiore ricchezza narrativa. È chiaro che le specificità del cinema, in particolare tutti gli aspetti tecnologici postproduttivi, non hanno molto a che vedere con il teatro. Ma sono gli ambienti artistici che devono essere permeabili. Ci sono tanti esempi straordinari che vanno in questa direzione e artisti riconosciuti che, già da tempo, si muovono trasversalmente tra i due settori, basta citare in Italia, Mario Martone. Mentre all’estero, dove questa modalità di lavoro è più diffusa, emergono casi eclatanti come quello di Martin McDonagh celebrato drammaturgo teatrale, pluripremiato regista di cinema e di teatro o quello di Simon Mcburney attore, drammaturgo, regista molto noto anche fondatore dell’ attivissima e longeva compagnia teatrale Complicité.