GIORGIO FRANCHI | Una casa di montagna. Un figlio che ritrova la madre. E, nella stanza accanto, una capra: sta a zampe all’aria, forse è morta, forse è giusto che stia in casa, forse no. Ora bela, ora tace, parte di un gregge che teme la neve e rimane come ultimo baluardo di compagnia per la donna. La sua presenza toglie fiato alla conversazione, è ingombrante ma, allo stesso tempo, resta solo una presenza.
Si apre così il Trittico delle Bestie di Niccolò Matcovich: classe ’89, romano, ventisei anni al tempo della prima stesura (2015). Mezzo decennio dopo nasce Arturo: spettacolo co-firmato con la regista Laura Nardinocchi, vincitore del Premio Scenario Infanzia e recentemente approdato al Piccolo Teatro nel festival Tramedautore. Un dialogo tra attori (proprio Matcovich e Nardinocchi) e pubblico sul tema della morte del padre, con una struttura drammaturgica che non cerca il colpo al cuore, ma pone le basi per un continuo interrogarsi, onesto e reale, sulla scena.
È un controsenso: è difficile pensare che i due testi siano stati scritti dalla stessa persona ma, allo stesso tempo, è proprio la distanza che c’è fra loro che ce li fa immaginare vicini. Come il periodo blu e quello cubista di Picasso tradiscono la stessa matrice di rifiuto della forma cristallizzata. Il denominatore dei testi di Matcovich è evanescente, quasi inesistente. La miglior approssimazione che può venire in mente è un intreccio di parola, dettaglio e atmosfera curati minuziosamente, sul filo di una scrittura che si radica nella quotidianità per poi trascenderla. Ma è una definizione ancora insoddisfacente.
Abbiamo chiesto all’autore più camaleontico del West di spiegarci il suo processo di scrittura e come questa è cambiata negli anni. E, arrivati al presente, si unisce all’intervista Laura Nardinocchi, per raccontarci di Arturo e del possibile inizio di una nuova poetica.
Cerchiamo di trovare il seme della scrittura di Niccolò Matcovich. Dietro ai tuoi lavori si vede sempre un pensiero rivolto alla scena, soprattutto dal Trittico in poi.
Non so dire se sia così. Se lo è, è un processo interiorizzato. Quando scrivo non penso allo spazio o al pubblico, preferisco stare con il testo e tutte le accezioni dello scriverlo: lo scontro, la fatica, la rabbia. Per certi versi, è un rapporto anche morboso. So che è banale da dire, ma io sono molto innamorato delle parole. Ho bisogno di partire da loro per non rischiare di cadere nella tentazione di assecondare, o allontanare, lo spettatore. Invece mi concentro, lascio che la parola generi la parola e crei il linguaggio. Questo non significa solipsismo: significa trovare un filtro per arrivare fino in fondo a sé stessi, e conseguentemente al pubblico.
Proviamo un altro approccio. I tuoi testi sono intrisi di elementi quotidiani e della loro trascendenza. Nel Trittico delle Bestie i rapporti famigliari vengono sublimati nelle immagini di animali dai comportamenti inquietanti e imprevisti. In Kraken, una barca arenata in mare aperto scatena una discussione su un molo: subito la mente del lettore va alla vicenda Aquarius, finché dall’acqua non sbucano tentacoli che schiacciano i passanti mentre discutono.
Inoltre, sei il fondatore del festival Castellinaria ad Alvito, giunto alla quarta edizione, che si autodefinisce “festa pop”. Qual è il tuo rapporto con il pop e il quotidiano?
Il pop è una riflessione aperta da tempo. Di base a teatro non lo apprezzo particolarmente (non dice proprio così, NDA): pop significa riconoscibile, e a me non interessa, da spettatore, rispecchiarmi in quello che vedo. Diversamente, per Castellinaria sfruttiamo un approccio del pop che è declinato come comunità.
C’è un pensiero di costruzione di una collettività, condivisa da attore e spettatore finché le due figure non si confondono. All’inizio l’offerta artistica del Festival virava sul pop, poi ci siamo chiesti: Cosa succederebbe se creassimo un cortocircuito tra un contesto pop e un’offerta artistica diversa? Stiamo ancora cercando una quadra: quest’anno abbiamo avuto ospite Marco Baliani, tutto sommato un autore pop, ma è un pop di tipo diverso. È la differenza tra semplicità e facilità: la semplicità mi piace, la facilità no.
Quindi neanche il pop. Passiamo alla struttura: i tuoi testi, a partire dal Dittico del silenzio (testo in versi composto da due quadri, speculari sul piano metrico, opposti nel significato in quanto ognuno reca uno dei due punti di vista di una relazione violenta e tossica), avallano nella didascalia iniziale diverse possibilità di messa in scena. Restiamo umani, una “pietà 2.0” ambientata nel futuro in cui una donna in fin di vita accetta sofferenze atroci pur di non investire il compagno con il dolore della sua sparizione, può essere messo in scena tagliando o rimescolando i quadri. Anche Arturo apre a questa eventualità.
Su questo sì: amo l’idea di un teatro mobile e nomade, che si dia la possibilità di scomporsi. Ma neanche questo è un ragionamento che parte a tavolino: non ho interesse a fare qualcosa di estetizzante o concettuale. La verità è che non mi piace che qualcosa sia impacchettato o corrisponda a una visione: io sono il primo in conflitto con me stesso. In sostanza non c’è un’idea unica del testo: è multiforme, prende più punti di vista e si dà la possibilità di litigare con sé. Vedo Arturo come l’inizio di una nuova poetica, in cui tento di superare l’idea stessa dello spettacolo. Andare oltre alla confezione: tutti amiamo la scatola di cioccolatini, è buonissima, però è quella cosa e quella cosa resta. Mi piace pensare: Se la apro e ci trovo un Lego, cosa succede? Ormai come penso il teatro è diverso da cinque, dieci anni fa. Devo darmi la possibilità di variare, altrimenti mi annoio. E la noia è troppo presente a teatro.
Questa è la tua ennesima dichiarazione di poetica: tre anni fa ne avevi fatta un’altra con Io non sono mia madre, testo finalista dei premi Hystrio – Scritture di Scena e Ponte di Carta. Un lavoro sanguigno, che sembra ispirarsi più al “punk” di Copi e Genet che all’essenzialità e alla delicatezza dei tuoi ultimi testi.
Quello è stato l’inizio della fase in cui mi trovo ora: quella in cui cerco di eliminare i filtri. In Arturo con Laura abbiamo eliminato il filtro dell’attore, ad esempio. Nel colpo metateatrale di Io non sono mia madre (una pièce su rapporti amorosi e identità di genere che sconfina in una critica alla ricerca dello shock e dello stupore a tutti i costi, NDA) manca sì il filtro della “quarta parete”, ma non quello dell’ingegno. È un lavoro che ha molto significato per me, ma non mi fa impazzire: c’è quel contatto con lo spettatore che cerco oggi, ma è ancora in forma di colpo di scena. Ora non mi interessa più creare una struttura fissa che si ribalti alla fine.
Per rendere ancora più fluida la struttura, quindi, vi siete messi in scena, dandovi un copione che, a seconda delle interazioni col pubblico, cambia di sera in sera.
NM: Come detto prima, l’attore è un filtro. E, ancora una volta, non c’è una scelta a tavolino. La scelta di partire dalla parola è venuta dal tipo di lavoro: non riuscivamo a immaginare un attore che portasse quelle parole.
LN: Manca anche un altro filtro, ovvero quello della scrittura. La drammaturgia di Arturo nasce a servizio di cosa vogliamo comunicare a degli spettatori. Non c’è alcun ragionamento sull’estetica, ci preoccupiamo solo di dove vogliamo arrivare. L’unica parte più strutturata e poetica di Arturo, l’inizio, è stata riscritta: era quella più bella all’ascolto, ma anche l’unica così artificiale. C’è stato un po’ di rammarico, ma abbiamo mantenuto il principio che avevamo scelto.
E ora? Cosa ci sarà dopo? Una continuazione sulla strada di Arturo, o un ritorno al Trittico delle Bestie?
NM: Sicuramente è cambiato tanto dal Trittico a oggi. In primis, ho scoperto che amo stare dentro la crisi: prima cercavo appigli vitali, ora è quello che rifuggo. Amo esplorare forme nuove. Per questo non lo so: di certo non mi sento arrivato, anzi, mi sento particolarmente in crisi in questo periodo. E mi fa sentire bene.
LN: Io so che voglio stare qua. Con Arturo abbiamo scardinato dei principi che ci eravamo costituiti: arrivati a questo punto si può solo continuare a scardinare, stare nel mezzo non è possibile. Sul Trittico: è un testo di cui sono profondamente innamorata, già dai tempi dell’accademia. A lungo termine vorrei portarlo in scena, ma prima serve un’evoluzione: questa può consistere nel trovare la stessa sincerità che c’è nel parlare direttamente da autore a pubblico che cerchiamo in Arturo, ma lavorando con gli attori. Senza filtri, appunto.