RENZO FRANCABANDERA | Sarà a Genova il prossimo 6 Ottobre Wim Vandekeybus, per Vietato Ballare, la settima edizione di Resistere e Creare, festival di danza e arti performative con la direzione artistica di Michela Lucenti e Marina Petrillo, curato da Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Balletto Civile.
Fino al 10 Ottobre, danzatori e cittadini popoleranno pacificamente l’intera città sia nei teatri di S. Agostino e del Ponente di Voltri, sia soprattutto nelle piazze, nelle strade, nei vicoli e palazzi, in centro e a ponente, in un programma che si muove tra grandi ospiti nazionali (Aldes e Roberto Castello, Balletto Civile) e presenze internazionali di primo livello (Wim Vandekeybus, Dasha Rush), giovani artisti, progetti innovativi ed esperimenti performativi: spettacoli, incontri, esperimenti, laboratori, rave, djset.
Per Vietato Ballare, Wim Vandekeybus proporrà al pubblico Traces, coreografia in cui torna sulle tracce del suo percorso artistico, sulle intuizioni e i temi da cui ha preso le mosse la sua ricerca: il dramma delle pulsioni e degli istinti, il gioco delle energie e delle intensità. Traces è idealmente ambientato nello scenario naturalistico rumeno, come ha spiegato l’artista, territorio in cui si trovano le ultime foreste primordiali d’Europa, e lì questa composizione danzata cerca tracce che spesso sono più antiche dell’uomo e della sua memoria.
È una ricerca di segni primordiali della natura che il corpo ha dimenticato o represso, per rispondere alla domanda su quanta natura viva ancora nel genere umano.
Nello spettacolo, dieci ballerini si muovono su una colonna sonora composta da Trixie Whitley, Shahzad Ismaily, Ben Perowsky e Daniel Mintseris e registrata con l’ospite speciale Marc Ribot alla chitarra.
Vandekeybus ha accolto la nostra richiesta di un’intervista e abbiamo così avuto modo di confrontarci non solo su Traces ma, in generale, su cosa sia una creazione coreografica, sul valore dell’opera prima, su come nasce uno spettacolo, sul ruolo della paura nel processo creativo.
Wim, come è cambiato, se è cambiato in questi anni, il tuo pensiero sul senso del movimento nello spazio scenico? In cosa ti senti rappresentato da quello che i danzatori portano in scena?
L’anno prossimo saranno 35 anni da quando abbiamo portato in scena per la prima volta What the body does not remember. A me sembra ieri e io mi sento ancora la stessa persona, ma in tutto questo tempo ho imparato moltissimo. È come se tutto si fosse accumulato in un’unica, organica evoluzione, fino a ciò che esiste oggi. Vedo collegamenti, arrivano molte idee inaspettate e creazioni nuove, ma sento che tutto ciò proviene da quelle radici, che non affondavano nelle abilità tecniche. Era più un’energia, un gusto, un temperamento forte. Ora conosco molto bene il panorama della danza e del teatro ma sento ancora di non farne completamente parte, e che il nostro lavoro spicca più isolato. Forse ancora un po’ “underground”… una posizione che preferisco per ricercare e per mantenere la possibilità di continuare a trasformarmi, in aree più effimere.
I danzatori sono come una parte di me. Io sono di fianco a loro, non sopra di loro. Penso che sia di gran lunga la posizione migliore per creare insieme. La richiesta è molto alta, ma loro sanno bene il perché e non c’è nessuna fatica nell’alzare l’asticella. Non li vedo come una proiezione di me stesso ma so imitare ciascuno di loro molto bene e probabilmente loro sanno fare lo stesso con me.
Vieni unanimemente riconosciuto, insieme ad alcuni altri coreografi della tua stessa area geografica, come il fautore di una rivoluzione quasi semiotica del linguaggio della danza. Quali sono i segni o le creazioni che pensi abbiano portato a leggere nel tuo linguaggio una portata rivoluzionaria? Ti sentivi un rivoluzionario quando hai iniziato? E ti senti ancora così, o il mestiere e il tempo smorzano le rivoluzioni interiori?
Io penso che ciascuna opera prima di un creativo dovrebbe rompere il ghiaccio, accendere un fuoco, essere la più pura, la più evidente per leggerne un’evoluzione successiva. Io sono stato fortunato con il mio primo spettacolo ad avere un buon codice per iniziare. A causa della mia innocenza non scolarizzata era un codice profondamente intuitivo, anche se elaborato. Fu dichiarato una rivoluzione a New York con il Bessie Award, ma per me era semplicemente il risultato del nostro lavoro. Penso che la rivoluzione dovrebbe essere dentro ciascuno, come una necessità costruttiva per avere un risultato desiderato, wishing and wanting, di “ciò che potrebbe essere”. La rivoluzione punta a ciò che ancora non c’è; per questo passa attraverso la distruzione ed ha bisogno poi di creare un’alternativa. Già solo per questo motivo è un processo interessante.
Tutti gli artisti, in un modo o nell’altro, sviluppano un metodo, un approccio alla creazione che, anche se con qualche cambiamento, ritorna più di frequente. Qual è il tuo? Come inizi quando hai davanti un foglio bianco? I primi segni li fanno sempre i tuoi danzatori iniziando a improvvisare o sei tu già a indirizzarli in qualche idea che nasce dentro di te?
Non ho un metodo di lavoro fisso, mi preparo poco prima, ma per altro verso penso molto a ciò che il tutto potrebbe diventare. Quindi ho molte alternative in caso qualcosa non funzioni. Moltissimo accade nello studio e non è già “pre-masticato” fino ai dettagli. Lavoro sempre prima con l’idea generale e finisco con i dettagli. Alcune persone hanno dei processi mentali opposti al mio e hanno bisogno di iniziare dal dettaglio. Io preferisco chiamarla improvvisazione al posto di creazione, perché è improvvisando attorno a un’idea che si crea.
Cosa ti interessa che sappia lo spettatore, profondamente, di questo lavoro che porti in scena a Genova?
Il pubblico può non sapere nulla prima di vedere Traces. Posso parlare a lungo di come lo spettacolo è cresciuto, ma può benissimo essere visto senza alcuna preparazione.
È iniziato con una domanda da parte del Festival EUROPALIA, che si concentra su Paesi o Continenti ogni volta diversi. Nel 2019 il focus era la Romania e volevano un collegamento con questo Paese. Non ero particolarmente interessato alla situazione politica del periodo post Ceaușescu ma ho preferito concentrarmi sull’ultima natura selvaggia d’Europa, che ricopre un’ampia parte del territorio rumeno. È il nostro ultimo polmone ed è minacciato dalla distruzione. L’orso è diventato così una metafora della natura selvaggia umanizzata, essendo a metà tra natura e umanità. Quando gli uomini lasciano una traccia (trace, in inglese) nella foresta, è rintracciabile e sfruttabile. Una strada al fianco di una foresta può diventare una strada attraverso la foresta.
Inoltre, sono molti anni che lavoro attorno al tema dell’indifferenza della natura contrapposta alle passioni umane. Cos’è l’animale nell’uomo? Come possiamo diventare cervi irraggiungibili, creature mistiche in una foresta nebbiosa?
L’orso è addomesticato, ma l’orso selvaggio si vendica quando distruggiamo il suo territorio. Non possiamo dominare su tutto senza pagarne le conseguenze… anche con le nostre vite.
La città di Genova è in qualche modo più vicina al mio modo d’essere delle città nordiche, così organizzate. I like to play South and Mediterranean. Si vive molto più guardando in mezzo o oltre la realtà.
Spesso i creativi hanno momenti in cui la creazione non arriva subito, ma nasce con fatica. Tu come risolvi il tuo rapporto con la fantasia in quei casi? Fai delle cose per aiutarla e, se sì, quali?
La creazione arriva come l’acqua che sgocciola. Non è come vedere all’improvviso una luce abbagliante. È principalmente un processo di eliminazione e scelta. Poiché tutto è possibile e puoi farcela solo quando trovi il focus. Solo allora puoi andare più a fondo.
È meraviglioso inventare scene, tragedie. Poi le colori con un mood, una forma che ti piace e vai!
Quali sono le cose che, guardandoti indietro, sei stato veramente felice di aver fatto? Hanno a che fare con l’arte o l’arte poi è un pretesto per provare a essere felici nella vita?
Mi piace il network che si forma quando si crea uno spettacolo. Un gruppo totale di persone alle quali non devi spiegare tutto, ma tutto scorre insieme. La noia istituzionale non c’è… È il caos più organizzato a essere creativo.
Nella vita, regole e organizzazione sono create per evitare il caos, mentre l’ordine non è naturale. La natura ha un ordine molto ma molto più complesso che appare caotico, ma ogni micro organismo è lo specchio di un mega organismo. L’organizzazione sociale è così basic che qualsiasi processo intuitivo viene immediatamente eliminato, e l’intuizione viene fatta fuori.
Di cosa hai paura in questo tempo della tua vita e cosa ti fa gioire?
La paura è una grande ispirazione, ma non può paralizzarti, se no fa male. Possiamo avere paura della paura ma a me, in qualche modo, piace.