ILENA AMBROSIO | 1838, il Ruy Blas di Victor Hugo. L’amore impossibile tra una regina e un lacchè sullo sfondo della decadenza dell’impero spagnolo di fine XVII secolo, un perfido padrone che se ne serve per ingannare e vendicarsi; duelli, travestimenti e, al contempo, sfumature psicologiche, politiche, sociali.
Ci si chiede cosa potrebbero dire, oggi, una vicenda e un testo dai tratti così marcatamente romantici ed eroici, quali dinamiche potrebbero innescare sulla scena, nella pratica attoriale, nel confronto con un pubblico moderno.
Di certo se lo è chiesto Il Mulino di Amleto con il suo Ruy Blas. Quattro quadri sull’identità e sul coraggio, lavoro del 2017 che sta avendo modo di continuare a calcare le scene e che abbiamo visto al Teatro Cantiere Florida di Firenze (la prossima tappa il 15 ottobre al Filodrammatici di Piacenza). Un lavoro che ha dunque già qualche anno, dopo il quale c’è stata l’intensa lettura del Platonov di Čechov, la vicenda familiare di Senza Famiglia, i progetti del Cantiere Ibsen e di Fahrenheit, fino al complesso incontro con il Vinterberg di Festen.

Ma proprio questo Ruy Blas sembra segnare un momento di svolta nel percorso della Compagnia, innanzi tutto in direzione di un’idea della creazione che vuole prendersi il proprio tempo di gestazione, maturazione, approfondimento, in funzione di un’attitudine – poi sempre più approfondita – verso un’ermeneutica del testo tesa ad afferrare quegli agganci al contemporaneo che rendono un classico ancora capace di comunicare senso e fare da apripista per la ricerca di nuovi modi di stare sulla scena, di interagire con i colleghi, di avvicinare il pubblico. 

Una sfida, allora, che si gioca sul ring che è il quadrato che fa da scena e attorno al quale sta seduto il pubblico assieme agli attori.
La sfida di Ruy Blas contro la perfidia di Don Sallustio, in primis, ma, più in fondo, lo scontro tra sincerità e maschera, tra un’identità corrispondente al proprio vero io e alla propria nobiltà d’animo e un’altra indossata per volere altrui, che apre la strada verso il successo e verso il cuore della regina ma che è una menzogna, un abito stretto dal quale solo la verità e la morte riescono, infine, a liberare. Il dissidio di Ruy Blas si fa discorso – non didascalico ma incarnato sulla scena – sulla difficoltà di far aderire il dentro e il fuori, sulla complessità del rapporto con la propria identità – «Io sono… Chi sei?» ripetono continuamente i personaggi – sul coraggio che è spesso necessario per accettarla. 

Riflessione universale e fondamentale che i personaggi portano avanti in una linguaggio altrettanto complesso e ricco di senso. Una sfida con la lingua, dunque. La bellissima traduzione dell’opera di Giovanni Raboni (ed. Einaudi) viene accolta con audacia e insieme un senso di profondo rispetto dagli interpreti, che si appropriano di un dire in versi e in rima, di una sintassi articolata e un lessico in alcuni casi desueto facendone un parlare quasi colloquiale, porgendolo allo spettatore senza alcuna affettazione per fargliene cogliere tutta la bellezza. Anzi, per renderlo partecipe, chiamandolo a entrare nel meccanismo, a “salire sul ring” come alleato e co-attore del processo creativo.

Da questo spazio circondato da luci al neon gli interpreti entrano facendone, di quadro in quadro, ora il palazzo, ora la camera della regina, ora il covo di Don Sallustio. Vi si muovono come in una tango o in duello, così che siano i loro corpi a comunicare il colore dell’energia che fluisce da un personaggio all’altro.


Nessun arredamento, solo uno schermo che proietta i titoli dei quadri e i visi degli attori immersi sott’acqua. Pochi oggetti scenici, nessun costume. Solo piccole cose, indizi ai quali affidare la veicolazione di un senso, di un ruolo, di un profilo psicologico: la t-shirt dei Queen per la regina, regalità prêt-à-porter e un po’ ribelle; una spada, il conflitto il coraggio, il gioco del potere; l’abbigliamento di Don Sallustio, versione borghese di un uomo di corte. 
Nulla di superfluo, nessun orpello in modo da bilanciare la complessità della parola e del sentire e per permettere agli attori soli di riempire lo spazio. Perché questo Ruy Blas è, prima di ogni altra cosa, una sfida alla pratica attoriale. 

Abbiamo avuto modo di raccontare sulle pagine di PAC l’esperienza del progetto Cantiere Ibsen, un workshop aperto ad altri artisti durante il quale capire come riappropriarsi dell’idea di ricerca e di creatività. Fu un’occasione per un contatto diretto con la pratica della Compagnia: il training, le improvvisazioni, lo studio del testo nelle sue più sottili pieghe di senso, negli impercettibili dettagli psicologici, nelle implicazioni politiche e, poi, la ricerca dei modi più efficaci e veri per far cortocircuitare tutto questo con il sentire di ogni singolo interprete, di modo che possa trasudare dal suo corpo, risuonare nella sua voce.

Ecco, con Ruy Blas Marco Lorenzi e i suoi hanno portato questo sulla scena: attorialità in purezza. Non realismo né mimesi, ma il tentativo di far in qualche modo coincidere persona e personaggio, meglio, di farli incontrare riconoscendosi l’una nell’altro e, tenuti insieme da ciò che li lega, offrirli all’incontro con il pubblico.
L’intensa melanconia del Ruy Blas di Yuri D’Agostino, la psicotica seppur a tratti quasi simpatica perfidia del Don Sallustio di Angelo Tronca, la struggente solitudine a la fanciullesca energia vitale della regina di Barbara Mazzi; ancora le (splendide) incursioni canore in spagnolo di Rebecca Rossetti e la sua Duchessa/Signorina Rottenmeier, i ruoli mutevoli di Francesco Gargiulo e Alba Porto rispettivamente Don Carlos e la premurosa Casilda e, a tratti, figure metateatrali che sembra aprano una finestra su ciò che c’è stato prima della messa in scena, quasi mettendone a nudo l’impalcatura.
Dietro tutto risulta palpabile che un contatto intimo è stato cercato e stabilito dagli interpreti con i loro ruoli e a tratti, in trasparenza, può capitare di scorgere il loro sentire, quel vissuto che ha permesso un congiungimento così vero. Dietro tutto si possono immaginare lo studio, l’approfondimento, le prove, il confronto, alla ricerca del modo giusto, della strada giusta.

Una strada che, ora con crudeltà ora con ironia, sempre con intensa ostinazione, vuole arrivare a una verità estrema dello stare in scena, a spogliare l’attore per fargli indossare un abito che non lo nasconde ma, anzi, lo offre nudo agli occhi del pubblico.
Per cercare con coraggio la sua sincera e intima identità. 

RUY BLAS. Quattro quadri sull’identità e sul coraggio
adattamento dall’opera Ruy Blas di Victor Hugo

regia, traduzione e adattamento di Marco Lorenzi
i nostri eroi Yuri D’Agostino, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Anna Montalenti/Rebecca Rossetti, Alba Maria Porto, Angelo Tronca
visual concept Eleonora Diana
foto di scena Alessandro Salvatore e Manuela Giusto
distribuzione Valentina Pollani
da un’idea de Il Mulino di Amleto in collaborazione con Kataplixi Teatro
con il supporto dell’Alliance Française di Torino
e della Residenza Multidisciplinare Arte Transitiva a cura di Stalker Teatro/Officine Caos
con il contributo e vincitore di SIAE – Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura 2016