EUGENIO MIRONE | Si sa: sul concetto multiforme di arte contemporanea vige ancora un forte stereotipo, ma dal 1999 il Danae Festival, giunto ormai alla sua XXIII edizione sotto la guida artistica del Teatro delle Moire, s’impegna nella meritoria opera di divulgazione di esperienze della scena contemporanea. Tra le tante proposte di quest’edizione al Teatro Out Off è andato in scena Il pensiero è una scultura-1000 lettere, performance di Boris Kadin, artista croato con alle spalle anni di esperienza nei principali contesti internazionali. Non certo uno spettacolo dove mi sarei aspettato di vedere ragazzi tra il pubblico, eppure in platea i giovani spettatori c’erano.
Prendendo ispirazione da un’affermazione dell’artista Joseph Beuys, Boris Kadin costruisce la prima parte del suo progetto, Il pensiero è una scultura, performance in cui l’artista nelle vesti di una pseudodivinità narra della creazione del mondo. La necessità di instaurare una relazione con alcuni cittadini di Milano ha dato origine, invece, alla seconda parte del lavoro, 1000 lettere. Durante l’estate Kadin ha recapitato a mano una sua lettera contenente questioni personali e universali; le risposte dei cittadini inviate al performer sono diventate parte della scenografia, mentre una di esse ha avuto il privilegio di esser letta di fronte al pubblico.
Ma torniamo alla nostra affermazione iniziale: dunque, le nuove esperienze artistiche dovrebbero essere precluse agli spettatori in verde età? Assolutamente no; anzi, fa piacere vedere dei giovani ospiti riempire le sale. L’occhio di uno spettatore novello, infatti, è ancora vergine e fresco, di conseguenza anche meglio disposto a nuovi tipi di esperienze. Purtroppo, però, in questo caso, tra lazzi e risatine il giovane pubblico ha interferito nella fruizione degli altri spettatori. Ma quanto effettivamente sono colpevoli questi ragazzi? Siamo sinceri, chiunque di noi a undici anni avrebbe riso di fronte a un uomo che, vestito da sciamano, calza scarpe piene d’acqua e sguazza per la scena. È un fatto: finalmente siamo tornati a rivivere nella sua pienezza il rito teatrale, il quale prevede come matrice essenziale la relazione con il pubblico; tuttavia, questo rapporto deve esser gestito. Proprio i ragazzi, alternando momenti di concentrazione ad altri di distrazione, sono stati inconsapevolmente metro di misura del coinvolgimento della performance, il termometro dello scambio intessuto tra Kadin e il pubblico.
Boris Kadin inaugura la sua performance già sul palco, nascosto tra liane che pendono dal soffitto alle quali sono appesi fogli di carta che rappresentano simbolicamente le mille lettere inviategli come risposta. L’artista indossa una tunica nera ed è cinto sul capo da una maschera i cui tratti zoomorfi e metallici sembrano rievocare le sembianze di antiche divinità egizie. Prende avvio il rito: dal fondo del palco vengono portati in proscenio alcuni oggetti (una pentola e un martello, due bottiglie piene d’acqua e un set lucida scarpe). In seguito, lo sciamano pronunciando in inglese la formula “this is”, comincia a invocare antiche divinità del pantheon romano. Non è un caso che anche nei primi capitoli del libro della Genesi Dio crei attraverso la ripetizione di una formula (“E disse”); la parola, infatti, è per Joseph Beuys, l’artista che ha ispirato questo progetto, il più grande strumento di creazione: è pensiero, è scultura. Per Kadin, dunque, anche l’artista può essere un demiurgo, una divinità creatrice?
Un altro tema religioso, quello della trinità, viene sviscerato subito dopo. L’artista ci mostra come molte religioni prevedano una triade divina in relazione ai tre spazi della terra: sky, world e underworld. Padre-figlio-spirito, Brahma-Visnù-Śiva, Zeus-Poseidone-Ade sono solo alcune delle divinità invocate dal performer. La denuncia è perciò rivolta al nostro secolo che venera come divinità la triade Elon Musk-Kim Kardashian-Brad Pitt.
Sul tempo invece vuole riflettere l’artista nel finale della prima parte della performance. We have all the time in the world, è il titolo di una celebre canzone di Louis Armstrong, ma è anche la tesi dell’artista il quale, riaccese le luci in sala, fa intonare in coro questa frase al pubblico in modo da amplificare la risonanza del messaggio.
D’improvviso Kadin ci rivela in maniera telegrafica la morte di suo padre avvenuta a causa del covid-19, dopodiché prende corpo la seconda parte del progetto, 1000 lettere. Una collaboratrice sale sul palco e legge una delle lettere di risposta inviate all’artista, all’interno della quale vengono esposti problemi molto intimi. Le due strategie comunicative, pur veicolando entrambe contenuti profondi, collidono fra loro e generano una stonatura pregna di significato: se in una sola lettera scritta a un estraneo si riesce a instaurare un rapporto “vero”, allora l’ipercomunicazione della nostra società quanto ci consente di conoscerci veramente?
In conclusione, si percepisce che l’intenzione della performance sia quella di raggiungere una densità comunicativa che non è quella di una conversazione quotidiana da social network, e a tratti l’intento viene raggiunto; tuttavia, il risultato non è costante: a momenti di forte intensità si alternano brevi cali di tensione, testimoniati dalla distrazione del pubblico più giovane. Insomma, cinquanta minuti sono tanti e allo stesso tempo troppo pochi; la ricerca di un maggior equilibrio tra le due sezioni del lavoro, magari riducendo di poco la prima parte per dare spazio alla lettura di una seconda lettera, avrebbe permesso di sfruttare a pieno il potenziale della performance. É una questione di tempo, in fin dei conti. We have all the time in the world.
IL PENSIERO È UNA SCULTURA-1000 LETTERE
concept, performance Boris Kadin
maschera Igor Oliverich
video NASA archive
musica Arcangelo Corelli / 12 concerti grossi, op.6
video e audio editing Boris Kadin
con il sostegno di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia (un progetto di Circuito CLAPS e Teatro delle Moire, Industria Scenica, Milano Musica, ZONA K), grazie a ARL Dubrovnik
Teatro Out Off, Milano
12 ottobre 2021