ENRICO PASTORE | Bisogna imparare a vedere una prova. È forse ancor più difficile dell’acquisire uno sguardo verso lo spettacolo. Soprattutto bisogna conquistarsi la fiducia dell’artista: ti lascia entrare nella sua casa, è nudo e indifeso, va protetto dagli sguardi indiscreti.
Lo scorso 20 ottobre ho avuto il privilegio di assistere alle prove della nuova produzione de La piccola Compagnia della magnolia, FEDRAH o della Spietà dell’Amore, la cui regia è stata affidata a Michele Di Mauro.
L’abitudine ad assistere alle prove è una consuetudine che mi è stata inculcata dal mio maestro Antonio Attisani. Ricordo il suo costante invito a frequentare quella che chiamava “la bottega del teatro”, per imparare il mestiere, e amava ripetere : «Il teatro si impara a teatro». Dopo venticinque anni posso confermare la bontà di quel consiglio volutamente insistente.
Non vi è infatti osservatorio migliore per apprendere le modalità di lavoro di un artista o di una compagnia che partecipare, con occhio attento e discreto, al lavorio intenso del tempo creativo pre-spettacolare. Ciò che avviene in sala durante la costruzione è un processo alchemico: coniugare gli opposti caratteri, costruire i personaggi sugli attori, trovare il giusto amalgama emotivo, costruire uno spazio d’azione accogliente alle diverse nature, far respirare oggetti e costumi, cogliere la giusta luce e il suono che diano risalto all’azione e alla parola.
In sala prova si genera un mondo non mai prima esistito. È l’accendersi di una stella più o meno luminosa. È scongiurare un buco nero, un piccolo fiat lux.
Nel caso di FEDRAH o della Spietà dell’Amore, spettacolo che debutterà il prossimo 11 novembre a La Spezia (in replica il 12) negli spazi di Fuori Luogo, il processo a cui ho assistito era già in fase avanzata di definizione; il tempo delle cosiddette filate, dove si cerca il ritmo giusto, dove si riesce a comprendere se tutti i singoli procedimenti si fonderanno in un organismo vivente. Bisogna essere discreti nell’osservare (l’occhio sa essere tremendamente violento) e nel dire (la parola sbagliata ferisce, incrina gli equilibri, manifesta energie equivoche e sbagliate). Bisogna imparare a partecipare a una prova.
Durante la visione di Fedrah ho potuto osservare la mano esperta di Michele Di Mauro nell’aver saputo porre gli attori in una condizione nuova per loro, lontano dagli schemi consueti di una compagnia che lavora da molti anni. Nel caso di Giorgia Cerruti e di Davide Giglio, bisognava saper scardinare la loro modalità in cui la forza di una si bilancia con la dolce arrendevolezza dell’altro (per esempio in Mater Dei su testo di Massimo Sgorbani dove G. Cerruti troneggiava al centro imponente e terribile mentre D. Giglio abitava muto e desiderante i luoghi bassi e acquosi della scena come relegato in posizione minore). Di Mauro ha ribaltato i ruoli facendo sprofondare i due attori in mondi per loro non battuti ma che hanno scatenato energie impreviste e sorprendenti. Davide è un Ippolito sadiano e faustiano, Giorgia una Fedra fragile, quasi vanesia, ma capace di verticalità intimistiche e profondità di sentimento nella friabilità.
Di Mauro inoltre aveva di fronte anche un’altra sfida: amalgamare nella miscela scenica un’attrice come Francesca Cassottana che mai aveva lavorato con La Magnolia. Il rischio era si avvertisse la sua estraneità a fronte dell’estrema coesione dei suoi due compagni. Questo non si avverte. Anzi.
Inoltre Francesca ha saputo liberare energie potenti nell’incarnare Strophe, la figlia di Fedra. Tra lo sbarazzino e il lascivo, tra l’amorevole e il disdicevole, Francesca Cassottana fornisce un contraltare multiforme alle personalità di Fedra e Ippolito, amanti in guerra, figlio e matrigna avvinti in uno scandaloso ménage senza amore, tra l’ossessione dell’una e la svogliata libidine rancorosa dell’altro.
La scena è semplice nel suo esser barocca: tra Marie Antoinette di Sofia Coppola e Hamlet suite di Carmelo Bene. Una stanzetta di giochi dove delle bambine potrebbero giocare a bere il tè ma pronta a trasformarsi in luogo di tortura degno del marchese De Sade. E poi un confessionale con luminarie messicane, dove confessare i grandi peccati, urlare contro il fato e gli dèi, scontrarsi con l’angelo come Giacobbe.
I costumi giocano sempre in contrasto ponendo lo spettatore in un mondo irreale ma possibile: Fedrah vestita come una nobile d’altri tempi, Ippolito in rosso con giacca nobiliare e pantaloni della tuta, mentre Strophe, ragazzina adolescente in short, maglietta e calzettoni al ginocchio. Tutto questo ci porta in un tempo fuor di sesto, tra un presente possibile e un passato immaginario.
Questo luogo illusorio, inesistente eppur presente, questa corte di famiglia regale, è abitata da suoni e parole che giocano a smorzare o esaltare i sentimenti in gioco in contrappunto tra il pop e i grandi corali liturgici ad accompagnare i furori blasfemi e miltoniani di rivolta agli dèi e alla società.
Tutti questi elementi sono ora in cerca di una miscela che può avvenire solo in due modi: molte filate da qui al debutto, e una vita lunga sui palcoscenici sotto l’occhio del pubblico. La prima è più facilmente ottenibile della seconda. La distribuzione in Italia è il vero vulnus del sistema, ma siamo all’inizio di un percorso e vogliamo essere fiduciosi che un lavoro forte già a tre settimane dal debutto possa incontrare il consenso di critica e operatori.
Qualcuno si chiederà perché parlare di prove e farlo prima del debutto. I motivi sono essenzialmente due: il primo è il desiderio della Compagnia, la loro volontà di richiamare la critica a tornare a frequentare le sale non solo per gli spettacoli ma anche per seguirne il lavoro creativo preparatorio; il secondo, connesso al primo, è raccontare ciò che non si vede, il processo, il lavorio, il calvario, l’esaltazione.
La bottega nascosta del teatro i cui documenti latitano sempre più dagli scritti teatrali contemporanei. Se vogliamo lasciare qualcosa alle nuove generazioni dobbiamo saper raccontare il lavoro dell’attore, del regista, dei tecnici, e non solo il momento spettacolare. Certo è meno glamour andare a prove, ma per certi versi molto più soddisfacente per chi ama profondamente il teatro. È un’esperienza che dovrebbe essere estesa al pubblico. Nelle giuste forme, in presenza e non in rete, perché è in sala che bisogna saper stare di fronte all’atto creativo, non sul divano di casa.
Le prove sono l’anima nascosta del teatro. La crisalide rispetto alla farfalla. Poter osservare la trasformazione è un dono e un’emozione. Raccontare la metamorfosi si può solo per accenni, per balbettii, ma si deve, perché lo spettacolo è solo una parte della storia.