GIORGIO FRANCHI | Il critico Terry Eagleton, parlando del filosofo Slavoj Žižek, ne definisce l’intelligenza come quella di un “Socrate sotto steroidi”. Un curriculum di venti lettere che sintetizza entrambi i poli della drammaturgia di Niccolò Fettarappa: una conoscenza disarmante della filosofia, un’attitudine scenica da thai boxer inferocito. Nel 2019 questa discrasia dà vita ad Apocalisse Tascabile, spettacolo vincitore di In-Box 2020, ma il cui successo si misura soprattutto dalle reazioni del pubblico. In un discount di periferia, Dio decide di apparire di fronte a un ragazzo per comunicargli, in mezzo a scatolette di tonno e 3×2 per i sottaceti, che dovrà preparare il mondo alla sua fine. La trascinante energia di Niccolò, capace di passare da Woody Allen a Iggy Pop in cinque secondi netti, viene raddoppiata dal commilitone Lorenzo Guerrieri, esecutore designato dei momenti più grevi, violenti e spiazzanti della liturgia scenica. In presenza di tanta creatività, quindi, ho deciso di partire dalla domanda più scontata:
Da dove sei partito per scrivere il testo?
Molto viene dalla filosofia, materia che studio all’università. Mi sono sempre nutrito tantissimo di produzioni saggistiche e filosofiche. Sul palco succede di tutto, deliri, massacri: ma dietro quel massacro in due battute stiamo sintetizzando l’evoluzione del lavoro e del processo produttivo nell’ultimo secolo. Mi diverte l’idea di tradurre qualcosa dal livello analitico a quello scenico, e sono felice di essere riuscito a farlo in modo efficace. L’altra fonte di ispirazione sono state le passeggiate che facevo quando scrivevo il testo.
Raccontaci l’itinerario che percorrevi.
La maggior parte delle volte uscivo per andare alle prove, da Trastevere a Monti. Scendevo dal treno con le cuffiette che riproducevano Lou Reed, soprattutto Velvet Underground & Nico e Street Hustle. Nel mezzo di quelle percussioni insuperabili dagli echi tribali risalivo fino a Largo Argentina fino alla sede del Partito Comunista. Poco dopo passavo per il Colosseo e i Fori Imperiali, in mezzo ai fiumi di carne dei turisti: ciccioni, torme di giapponesi, guide turistiche in mezzo ai tram che sfrecciavano. E tutto questo accadeva sulle rovine di Roma: una città che ha già qualcosa di apocalittico e che di apocalisse ne ha già vissute tante. E in più era novembre, che dà un’aria ancora più spettrale alla città.
Tanto più spettrale considerando che il testo è del 2019 e che in quel momento ci trovavamo giusto alle soglie di una pandemia, che al tempo sembrava assolutamente imprevedibile.
Le prime volte che abbiamo portato in scena il testo, il pubblico si trovava davanti a un concetto nuovo, per quanto topico della contemporaneità: Bifo ha giustamente sottolineato come l’apocalisse sia l’orizzonte culturale della nostra generazione. Ma era qualcosa di inaspettato. Ora l’apocalisse è compromessa: ci stanno facendo film, libri, album, è un brand. L’apocalisse non funziona più, il suo portato rivoluzionario è nullo, è diventata addirittura materia di discussione parlamentare. Ma proprio per quanto è centrale per noi dobbiamo riappropriarcene in senso rovesciante.
Qualcuno direbbe che lo spettacolo acquisisce il pregio dell’attualità.
Ma io credo che sia necessario essere attenti a non essere attuali. È un attimo che il pubblico si senta confortato, e questo a teatro va evitato come la peste. Il pubblico non deve empatizzare per quello che vede in scena. Per questo non portiamo dei personaggi sul palco: il personaggio serve come maschera per identificarsi, ma chi viene a teatro non vuole svagarsi, vuole mettersi in discussione. Più metti il pubblico con le spalle al muro meglio è.
Però la quotidianità in Apocalisse Tascabile non manca. È uno spettacolo con una forte impronta pop: marchi e slogan pubblicitari dei nostri giorni vengono addirittura declamati in scena, al centro di un universo iper-consumistico alla Aldo Nove, fatto di carte Fidaty e salmoni surgelati.
C’è un grosso rischio di identificazione, e che quell’identificazione produca la risata. è il meccanismo su cui si fonda il cabaret: rido perché mi identifico. Ma è qualcosa che vorremmo evitare. Il mio obiettivo autorale, quando scrivo un dialogo in cui gli slogan si sostituiscono alle battute, è mostrare la contraffazione estrema del linguaggio. Un esempio è quando, in un gruppo di amici, ti trovi bloccato in una di quelle terrificanti conversazioni in cui si parla di serie tv: è pubblicità occulta, gli studiosi del lavoro già oggi ne parlano come di audience labour, di lavoro promozionale dello spettatore. Il nostro mondo sta andando in questa direzione. Prima di cominciare a parlare di questo testo dovremmo parlare per due ore per spurgarci di tutto il linguaggio che ci è stato messo dentro stamattina e far emergere una parte autentica.
Quale può essere la soluzione, artisticamente parlando?
Non credo che abbia più senso restituire l’alienazione con altra alienazione, modello Antonioni. Il pubblico non va confortato, ma nemmeno crocifisso. La critica ci ha chiesto spesso: “Dov’è la speranza in questo spettacolo?” Io non credo ci sia speranza e nemmeno che serva, ma a sforzarsi di cercarla sta nella potenza che ci mettiamo sul palco. Sta nel sudore, nella fatica, nel tentativo disperato di risignificare un mondo che vuole smettere di significare. Che alternativa esiste a questo, il suicidio?
Possiamo intendere tutta questa energia in senso catartico? In Apocalisse Tascabile, come anche nei tuoi primi testi, il copione prevede quelli che sembrano quasi rituali esoterici in cui gli attori e il pubblico si liberano della frustrazione alienante di ogni giorno.
La catarsi è la creazione di un nuovo orizzonte di significato. In Apocalisse culturale, Ernesto de Martino sostiene che l’uomo è un essere culturale per natura; quando si trova davanti a crisi di significato, deve creare un nuovo orizzonte per superare quella crisi. L’orizzonte può essere anche mettersi dalla parte dei propri carnefici in scena. Sicuramente è molto bello per noi farlo. Come anche è bello maltrattare il pubblico: mostri quanta complicità c’è del pubblico a maltrattare sé stesso fuori dal teatro. Nella vita quotidiana accetti che ti venga inflitto di tutto, a teatro trovi due attori a reggerti lo specchio.
Un’ultima domanda: vi hanno spesso attribuito, oltre a quella del pop, la targa dello spettacolo giovane e generazionale. Cosa ne pensi?
Il giovane è un concetto di merda con cui l’over 50 si spurga la propria coscienza. Scrivilo. E scrivi anche che, la prossima volta che ci dicono che è uno spettacolo “fresco” e “giovane” – che sono termini, rispettivamente, della macelleria e pornografia – gli do un pugno. Non ho mai fatto una rissa, ma potrebbe essere la prima volta.