RITA CIRRINCIONE | Artisti provenienti dal mondo del teatro, della danza e della musica, ciascuno con la propria storia, il proprio percorso artistico ma con l’intento comune di fare rete
hanno dato vita a Palermo all’Associazione Genìa, un laboratorio di ricerca multidisciplinare e di progettazione partecipata in stretta collaborazione con il DAMS.
La Compagnia Civilleri/Lo Sicco di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco; la Compagnia Suttascupa del regista e drammaturgo Giuseppe Massa; Claudio Collovà, regista e drammaturgo con Area Madera, lo spazio di ricerca dedicato al teatro contemporaneo e alle discipline connesse al movimento e al suono, fondato con Alessandra Luberti e Miriam Palma; l’attrice Simona Malato con la sua associazione Bogotà; l’attore e drammaturgo Dario Muratore con il gruppo di ricerca teatrale FrazioniResidue; i registi Luigi Di Ganci e Ugo Giacomazzi, fondatori dei Teatri Alchemici, provenienti dal teatro sociale e approdati al teatro d’opera; Giovanna Velardi, danzatrice e coreografa con PinDoc, associazione di produzione e promozione di danza contemporanea; Curva Minore, associazione per la musica contemporanea fondata da Lelio Giannetto, inesauribile generatore di sperimentazioni musicali e di ardite situazioni performative, colonna portante di Genìa di cui era segretario, portato via dal Covid nel dicembre del 2020, ora rappresentata da Valeria Cuffaro e Luca Giannetto.
Questa è Genìa: una rete di reti composta da artisti non certo alle prime armi, anzi tra i più affermati nel panorama nazionale e non solo, soggetti che a loro volta hanno un’identità variegata, storie di aggregazioni, di altre fondazioni, di creazione di spazi, di sperimentazione, di ricerca e di pratiche didattiche. Ciò sgombra il terreno dal sospetto che l’operazione sia un espediente per emergere e avere peso e visibilità come singolo artista, e mostra piuttosto la sua natura di atto politico che mira alla costruzione di una realtà territoriale di ricerca e innovazione, di riflessione e pratica dei linguaggi contemporanei con uno sguardo rivolto alle nuove generazioni.
Con una direzione artistica “distribuita” affidata a tre esponenti dell’Associazione, uno per ciascuna disciplina rappresentata – Claudio Collovà per il teatro, Giovanna Velardi per la danza, Alessandro Librio per la musica – e con il supporto di un comitato scientifico di artisti internazionali e di personalità del mondo accademico, dal’11 al 17 ottobre Genìa ha dato vita al suo primo festival Prima Onda con il sostegno del Ministero della Cultura, della Città metropolitana e dell’Assessorato alle Culture del Comune di Palermo, del DAMS dell’Università degli Studi di Palermo e di Ecomuseo Mare Memoria Viva.
Presidente di Genìa nonché motore dell’iniziativa e artefice della chiamata a raccolta degli artisti e delle compagnie che la compongono, Sabino Civilleri conferma la sua indomabile progettualità e la sua vocazione fondativa come quando fu co-fondatore con Manuela Lo Sicco, Gaetano Bruno e Italia Carroccio della Compagnia Sud Costa Occidentale di Emma Dante, che diede vita a una straordinaria stagione di scritture sceniche fortemente innovative ottenendo numerosi riconoscimenti (Premio Scenario nel 2001 con mPalermu; premio UBU nel 2002 e nel 2003 come migliore novità drammaturgica ancora con mPalermu e con Carnezzeria). Da tempo Sabino Civilleri – come Compagnia Civilleri/LoSicco – porta avanti un percorso indipendente di ricerca di una propria modalità creativa conducendo laboratori e residenziali volti alla formazione e alla scoperta di un proprio linguaggio teatrale.
Chiediamo a lui di parlarci di questa entità complessa e multiforme e delle ragioni politiche e artistiche che stanno alla base dell’operazione Genìa.
Un nuovo progetto risponde a un bisogno o a un sogno, serve a colmare un vuoto e a riempirlo con qualcosa che mancava o che non ci piaceva. Sabino Civilleri, quale visione ha dato origine a Genìa? E qual è il collante che tiene insieme le diverse realtà che la compongono?
Genìa è una rete che si pone a cesura di una tendenza che risale almeno agli ultimi 30 anni in cui si sono affermati pochissimi singoli artisti. Questa cesura arriva nel momento più buio della storia recente: la pandemia. È stato molto forte trovarsi nella stessa condizione, nudi e inermi davanti a qualcosa di inconcepibile per i nostri corpi. Ci siamo guardati con occhi profondamente sinceri, compiendo un gesto semplice: accettare le differenze. L’aspetto sorprendente fin dalla nascita di Genìa è stato la mancata dichiarazione di un manifesto, a favore di un’azione di radicalizzazione del dialogo interno che ha permesso la creazione di un corpo unico, multidisciplinare e transgenerazionale, rispettando il principio di organicità.
Non è mai stata un’unione per avere maggiore forza e potenza. Non siamo una proposta artistica, non rispondiamo a un format da promuovere; siamo una rete in continua espansione di cui non conosciamo il punto terminale e questo crea curiosità e tensione. Applichiamo una metodologia nel dialogo e nella tessitura delle relazioni che nasce dalla pratica artistica giornaliera di ognuno di noi e si basa sull’ascolto, il laboratorio e la ricerca: tre parole importantissime, tre anelli di congiunzione distintivi della rete artistica di Genìa. Non ricordo un’esperienza simile a Palermo. Negli anni ho collaborato con molte realtà italiane di nuova generazione alcune delle quali (poche a dir la verità) hanno fatto della propria esistenza e azione un vero laboratorio di ricerca in continua crescita. Molte sono in rete con Genìa fin dal primo momento dalla costituzione e insieme stiamo elaborando una modalità che ci mantenga in rete su un territorio vasto come l’Italia.
È ambizioso ma corrisponde a un principio fondamentale di Genìa: fare rete, non circuito, il che è molto diverso.
Prima Onda “anno zero” è nato in piena pandemia. Quanto ha influito il clima di sospensione e di riflessione di quel periodo e lo stop forzato del mondo dello spettacolo?
A Palermo non c’era sicuramente bisogno di un nuovo festival, siamo in una stagione florida di proposte con grandi potenzialità artistiche e organizzative, poi è arrivata la pandemia. La pandemia ha messo in evidenza un processo che già era in atto da un paio di anni e che era iniziato con un ciclo di rappresentazioni all’interno degli oratori serpottiani, un progetto in collaborazione con il DAMS di Palermo ideato dal suo coordinatore Prof. Salvatore Tedesco e con la Curia di Palermo.
È stato molto importante guardare il lavoro altrui, cercare traiettorie teoriche e tematiche, osservare pratiche artistiche differenti con l’intento di tessere un ordito unico. Un laboratorio lungo un mese, un tempo di riflessione considerevole. Una stranezza. Spente le luci della ribalta è rimasto il desiderio di continuare anche senza un obiettivo a breve scadenza. Sembrerebbe poco, ma rapportato alla concretezza a cui siamo spinti ogni giorno nel nostro “settore” ci lasciava sbalorditi. Avevamo riscaldato i motori e buttato le basi per un futuro festival. Ci incontravamo quasi per caso a Palermo e il nostro modo di dialogare era cambiato, sentivamo una confidenza nuova che avevamo con pochissimi altri artisti del territorio. Allora l’idea è stata quella di riunirci tutti e raccontare quelle che erano le nostre riflessioni e osservazioni, ascoltando quelle degli altri. Passavamo le ore ad ascoltare, a turno gestivamo un tempo in cui raccontare il presente e il futuro del nostro agire artistico.
Da questa forma di ascolto è nato il progetto “Inondazioni – Memorie dal versante Sud”. Un insieme di interventi artistici tra formazione e messinscena dedicati alla Memoria di un territorio specifico: la periferia sud di Palermo. Un progetto che inizieremo a realizzare nel 2022 insieme ai nostri partner ma da quell’ascolto è nato il festival Prima Onda nel 2020 con una edizione ridottissima.
La pandemia è stata vissuta insieme, guardando a un futuro senza scadenze, senza costrizioni. Ma la pandemia è stata anche un grande dolore: ha inghiottito letteralmente Lelio Giannetto che rappresentava per noi quell’energia propulsiva che cerchiamo di custodire con cura e di cui il festival è espressione. Ma la sua mancanza e il vuoto che si è determinato ha sicuramente influito su tanti aspetti della nostra azione artistica.
Una sera di fine lockdown ci siamo ritrovati tutti al molo sud del porto di Palermo e da lì guardando l’orizzonte abbiamo dedicato un pensiero a Lelio e abbiamo stretto con lui un patto silenzioso. Questo è il mondo dello spettacolo che amiamo, condividere una visione nel buio.
Una rete di compagnie, una direzione artistica collettiva, il supporto di un comitato scientifico non autoreferenziale, un’apertura a diverse realtà del mondo associativo della città: un vero salto culturale per un territorio in cui vige il motto “Ognuno per sé, Dio per tutti”. Una questione ideologica o di metodo?
Ognuno di noi in epoche diverse ha avuto le proprie esperienze con gruppi di matrice ideologica e il risultato è più meno sempre lo stesso, perché esiste una parola che funziona da cardine, ma che finisce sempre per scardinare: coerenza.
È una questione di pragmatica, quindi puramente artistica. Ci riconosciamo su molti aspetti del fare arte, non siamo interessati al risultato, allo spettacolo, perché quello è un piano di confronto principalmente con il pubblico e si basa sul giudizio. Noi guardiamo ai processi creativi e organizzativi che gli artisti e l’arte mettono in moto, allo sforzo personale che si mette in campo nella propria quotidianità per portare avanti la ricerca, al modo di concepire il proprio laboratorio di creazione, al rapporto con il luogo in cui ha vita l’azione artistica, alla gestione del tempo e dello spazio. Lo facciamo tra di noi e lo applichiamo a tutte le relazioni che stiamo creando, di qualunque natura esse siano. Il salto culturale è lontano e sicuramente ha bisogno di altri tentativi e di altre esperienze. Noi siamo disposti a dare il nostro contributo, siamo solo un tratto del percorso.
In un paese che da troppo tempo sottrae risorse alla ricerca e alla formazione delle nuove generazioni e che, nel campo specifico delle discipline dello spettacolo, ha visto spesso uno scollamento tra formazione accademica, ricerca e pratica artistica, la convenzione con l’Università, gli incontri di ricerca e di approfondimento con i docenti, il coinvolgimento degli studenti del DAMS in alcuni momenti progettuali rappresentano una svolta e forse costituiscono il segno distintivo di Genìa che la differenzia da altre realtà. Come siete arrivati a questa partnership?
Molte realtà cittadine hanno nel tempo stretto convenzioni con l’Università e in alcuni casi si sono verificati risultati importantissimi. Per noi le cose sono diverse come non se ne vedevano da alcuni decenni. Grazie a un progetto di rivalutazione della propria missione sul territorio – La terza missione – l’Università è promotrice delle attività e progetta azioni sistemiche insieme a diversi soggetti e su campi molto differenti aprendo al proprio patrimonio e mettendo in campo anche risorse umane e professionali di spessore. Noi condividiamo questo nuovo ruolo che l’Università di Palermo sta assumendo in città. Considerando che il 100% degli artisti di Genìa opera nell’ambito della ricerca sulle arti performative è stato quasi naturale confluire in un progetto comune.
In Italia esistono esperienze pluriennali con le stesse caratteristiche, ma credo che Genìa abbia la possibilità di andare oltre queste esperienze. Ormai da anni non esistono più gli spazi della ricerca, la riforma del sistema li ha inghiottiti e le programmazioni parlano da sé. In questo vuoto, l’Università rappresenta una nuova possibile casa assolvendo a uno dei principi su cui si fonda. L’obiettivo di Genìa non è ottenere benefit da questo rapporto, quanto piuttosto assolvere al ruolo fondamentale di promotore di progetti con caratteristiche che li rendono inaccettabili al resto del sistema e che rappresentano quella “diversità” necessaria all’innovazione dei linguaggi e delle arti performative. Non stiamo lavorando alla creazione del “Teatro d’Ateneo” (vogliamo tranquillizzare tutti): stiamo superando quelle esperienze per costruire uno spazio e un tempo che ci sono stati sottratti e per farlo non abbiamo bisogno di un luogo specifico ma di una progettualità a lungo termine condivisa con i partner.
La prima edizione di Prima Onda si è articolata su diverse sedi – il complesso monumentale dello Steri, i Cantieri Culturali alla Zisa, Palazzo Riso, Ecomuseo Mare Memoria Viva: si tratta di luoghi-simbolo di Palermo, di spazi che rappresentano altrettanti volti del festival. Ci vuoi parlare delle ragioni di questo “itinerario infedele” di Prima Onda?
Le sedi del festival saranno sempre diffuse sul territorio e risponderanno sempre più a itinerari ideali all’interno della città metropolitana di Palermo. Vogliamo segnare percorsi inediti insieme agli artisti che ospiteremo nella programmazione e al nostro comitato scientifico, cercando un dialogo con i luoghi e gli abitanti. Idealmente a Palermo si assiste alla mancata circolazione dell’energia vitale, che rimane concentrata in un’area molto ristretta e congestionata della città. È in essere un movimento focalizzato su un polo centrale, mentre ci sarebbe bisogno di creare un movimento ellittico tra poli opposti: centro e periferie. La città nella sua dimensione organica è in sofferenza e il festival deve contribuire alla costituzione di nuova armonia. È compito molto difficile, perché ci si scontra con molte resistenze e criticità, ma proprio queste ultime sono il campo di battaglia o meglio l’engagement che noi artisti dobbiamo cercare per riconsegnare funzione alla nostra esistenza e sfuggire dall’intrattenimento.
Incontro tra le arti dello spettacolo, tra generazioni, tra tradizione e innovazione, tra panorama locale e dimensione internazionale, tra oriente e occidente: davvero una bella sfida. A festival concluso, qual è il bilancio di Prima Onda 2021? Quali le sfide vinte? Quali (se ci sono) i tiri da aggiustare?
Il bilancio è positivo perché siamo riusciti a cavalcare la nostra Prima Onda con un programma veramente corposo e impegnativo in un momento assurdo per tutti. Abbiamo scacciato via la paura di non farcela, ossessione di tutto il mondo dello spettacolo dal vivo. Il lavoro da fare è legato soprattutto al tempo, capire bene che respiro dare a questo nuovo corpo che conosciamo poco. Una programmazione deve avere rispetto del ritmo interno dei luoghi e degli abitanti senza affollarli di offerte. Considerare il tempo di sedimentazione di ciò che il pubblico vede, rispettando anche la diversità “basica” tra il teatro e gli altri media. Saremo meno attraenti ma più disponibili alla cura, che richiede tempo, appunto. Personalmente credo che sia necessario togliere quella goffaggine tipica di chi inizia a fare i primi passi senza per questo stressare tutti per il raggiungimento di uno standard elevato di efficienza ma accettandola e vivendola come qualcosa di prezioso nel percorso che ci condurrà verso la nostra identità. Il festival è iniziato il giorno stesso in cui si è conclusa la programmazione; a breve partiranno tutte le attività con gli artisti, gli studiosi e i critici che fanno parte del comitato scientifico.
Abbiamo sempre avuto l’idea di un festival che considerasse la programmazione un tassello e non l’obiettivo finale. La crescita di consapevolezza del pubblico, così come degli studenti, la formazione delle nuove generazioni di artisti e performer, i sostegni alle compagnie e le residenze di produzione, i seminari internazionali sono tutte attività fondanti di Prima Onda e della nostra idea di festival che vanno oltre i giorni di programmazione e oltre le risorse impiegate fin qui. Sarà un gran lavoro che interesserà tanti esponenti delle arti performative del panorama internazionale e delle Università italiane. Abbiamo tanto da fare, ma anche una vita per farlo. Ne usciamo anche con un monito importante per la vita del festival: evitare di creare un circuito chiuso alle relazioni personali e professionali già acquisite, allargare le relazioni secondo delle linee strategiche che si allontanino dal meccanismo degli scambi e dal modello dei parametri numerici. Per noi è molto chiaro e la programmazione di questa edizione è limpida. Certo è anche molto rischioso, ma noi accettiamo la sfida.