RENZO FRANCABANDERA | Quello che ti suona al citofono proprio mentre stai preparando la cena, mentre hai già il condimento sul fuoco, e inizi ad aggiungere gli ingredienti; hai pure messo l’acqua a bollire, e qualcuno si presenta a casa tua, in quel preciso momento, quando niente è ancora pronto ma tutto già avviato, con una direzione che non è precisissima ma si sta determinando nel farsi.
In quel momento tutto può succedere ancora. Forse persino digiunare.
Ma intanto l’ospite ha suonato, che facciamo? Gli si apre?
CReSCo (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea) ha lanciato nel 2018 un progetto di indagine e approfondimento chiamato Lo stato dell’arte: lo scopo di questo format, che si sostanzia in una serie di incontri fra artisti a porte “semichiuse” in geografie diverse ma sempre attinenti all’ambito teatrale, è quello di far dialogare tra loro le voci più significative della scena teatrale e coreutica contemporanea nazionale, per condividere i processi che stanno tracciando in quel preciso momento, cioè l’insieme di idee, pensieri, visioni che permettono il passaggio dall’idea all’opera. Il progetto si articola in quattro incontri all’anno, a ciascuno dei quali vengono invitati quattro artisti italiani in uno spazio cui hanno accesso anche un testimone interessato (curatore o direttore di teatri e festival), che modera l’incontro e un narratore, che redige il diario di bordo, oltre ad un rappresentante del Tavolo delle Idee di CreScO.
Insomma, per scambiarsi le ricette, tornando alla metafora iniziale. Ma non in un momento qualsiasi: proprio mentre si hanno le pentole sul fuoco, in modo che arrivi il profumo della minestra in cottura e anche che si possa prendere stimolo dal dialogo, facilitato dalla presenza di un testimone, che appartiene al mondo della curatela artistica, e di un narratore, di solito un critico del linguaggio.
In questa prospettiva, non si vuole che gli artisti si ritrovino per parlare di spettacoli già realizzati e conclusi; piuttosto che si incontrino per condividere i percorsi in atto, momento in cui, secondo CReSCo, ha senso potenziare i meccanismi di incontro per rafforzare l’idea che la creazione appartiene collettivamente a un sistema, e che è prezioso averne cura.
Le regole dell’incontro: le/gli Artiste/i dedicano circa un’ora di tempo ciascuno all’illustrazione del progetto sul quale stanno lavorando (che non deve essere uno spettacolo che ha già debuttato, ma qualcosa su cui sono ancora in fase di ricerca). La testimone interessata (in questo caso Annamaria Talone di Spazio Matta) ha il compito di coordinare e stimolare la riflessione e lo scambio tra i presenti; il narratore redige il diario di bordo (questo che state leggendo). È presente un testimone del tavolo delle idee CReSCo (in questo caso Monica Ciarcelluti).
Ciascuno degli artisti ospiti racconta il metodo di lavoro che sta impiegando nel processo creativo della propria opera: testi, video di prove, lettura di cose scritte o che stanno ispirando. È possibile persino recitare o danzare, o semplicemente parlare e raccontare come è successo in questa due giorni di metà Ottobre.
E così è successo. A Pescara si sono avvicendati nel racconto delle pratiche artistiche quattro compagnie di diversa provenienza, storia, e prossimità alla creazione finale: Nicola Borghesi per Kepler 452 di Bologna, i marchigiano-romagnoli Luca Serrani e Isadora Angelini di Teatro Patalò, Unaltroteatro di Arturo Scognamiglio e Lorenza Sorino, e Elvira Frosini e Daniele Timpano della omonima compagnia. Pronti ad apparecchiare la cena…
Un po’ Festen, a guardare la foto di rito pre-avvio lavori, che l’occhio occidentale legge da sinistra, partendo dal duo in scuro Borghesi – Ciarcelluti, andando poi verso il fondo a trovare Alessandra Rossi e Mariangela Celi, legate alle esperienze di Spazio Matta e Arterie a Pescara, per zigzagare dalle coppie Patalò e Unaltroteatro in fondo, venendo poi in avanti sul trio Francabandera, Talone, Aggioli, fino al giubbottino dal colore discreto e mimetico di Daniele Timpano. Elvira Frosini, in compenso, per non dare nell’occhio, fa la vaga e guarda altrove.
Si dà inizio ai lavori. Uno alla volta, in grande ordine e in ascolto attento: tutti preparati con qualche slide, o raccolta di materiali audio video. Abbiamo convenuto, per permettere a tutti di conoscersi in modo efficace, che dieci-quindici minuti della propria ora di esposizione fossero dedicati ad un profilo storico della compagnia, a raccontare da dove si arrivava, un breve excursus sulle esperienze fondanti, per poi tuffarsi nel racconto del presente e della prospettiva futura.
C’era chi stava lavorando, come Kepler, alla committenza di un teatro nazionale, ERT, per un debutto a Gennaio, chi come il duo Patalò aveva il debutto la settimana successiva e sudava al pensiero di sottrarre ore alle prove, chi pur in una prospettiva di maggior agio temporale verso il debutto primaverile, come Frosini e Timpano, stava approfittando del momento per dei fuori campo nella sperimentazione perfomativo/installativa, e chi, come Unaltroteatro, stava raccogliendo gli elementi per arrivare al debutto nella primavera del 2021, ma anche a sviluppare l’ipotesi di una factory per le professioni dello spettacolo, in un territorio non facile come l’Abruzzo in cui, per anni, la politica culturale regionale ha trascurato di facilitare il radicamento di nuove realtà creative.
Iniziano le narrazioni.
Borghesi di Kepler maneggia Il Capitale di Marx come il mattone che è: ora con leggerezza, ora con giusta ponderazione, raccontando del lavoro che stanno conducendo di ascolto sui luoghi delle crisi del mercato del lavoro; degli studi che stanno facendo, per capirci qualcosa; del libro e del contesto economico, riletto dai racconti umanissimi delle ruote del carro schiacciate da questo peso immanente e liquido che tutto sovrasta.
Ci fa vedere materiali video delle loro visite alle fabbriche, gli audio degli operai che gli suggerivano come iniziare lo spettacolo, le conversazioni con i sik in protesta nella zona industriale di Latina dopo il licenziamento, che a domanda: “Ma fino a quando resterete qui”, rispondono “Fino alla fine”.
Di cosa, non è dato sapere, riflette Borghesi, con quella sua prosa ponderata che sottende la sferzante ironia sorniona e tagliente.
Luca Serrani e Isadora Angelini – Teatro Patalò chiedono di anticipare il loro intervento, per permettere almeno ad uno dei due di correre a Rimini, dove debuttano fra meno di una settimana. Il tavolo, per compassione, accorda.
Serrani ascolta silenzioso e interviene di tanto in tanto, aggiungendo piccole cose alla precisa narrazione della Angelini, che ci commuove tornando sulle grandi difficoltà dell’ultimo biennio, ma anche condividendo con noi presenti il notevole progetto cinematografico, stimolato dal piccolo/grande sogno di una serie di date negli Stati Uniti che si erano profilate all’orizzonte poco prima dell’esplodere della pandemia; alla fine per nutrire l’attesa della partenza e gli occhi dei loro interlocutori d’oltreoceano, hanno realizzato un film durante il lock down, ispirato allo stesso soggetto dello spettacolo. Di solito arriva prima lo spettacolo e dopo il film. E anche qui doveva essere così.
Ma la sorte pandemica ha voluto diversamente. E così hanno un film, in bianco e nero, poetico, e realizzato durante la solitudine del lockdown; che affronta la stessa materia testuale, ma realizzato in spazi aperti, in dialogo con la natura. Vediamo diversi minuti di Inventare la vita. Ci stupisce per intensità, per il nitore della fotografia, grazie alla collaborazione con un partner storico, Dorin Mihai.
Il secondo giorno Arturo Scognamiglio e Lorenza Sorino, Unaltroteatro, ci parlano delle loro tre nuove creazioni, Frantumi – secondo studio, Garage, La vita così com’è (il consorzio delle umane genti). Si tratta di lavori che, in parallelo e con diversi stadi di avanzamento, ragionano sui grandi sconvolgimenti che stiamo vivendo, mettendo in relazione il battito della farfalla con l’uragano, per così dire: Scognamiglio ci rende partecipi di macro temi che intrecciano filosofia e attualità e da cui è ispirato, leggendo stralci di libri che sempre, per lui, funzionano da innesco nel processo creativo, insieme agli eventi del contingente.
E gli eventi sono proprio le cose che succedono mentre uno è in un garage alla periferia di Napoli con amici di infanzia, e vicino si ode un’esplosione. Cosa collega le macro dinamiche nel mondo della finanza con le faide nella periferia delle città? In realtà queste riflessioni scorrono non in uno, ma in più lavori, e il duo le racconta avvinghiandole alle questioni anche dolorose del vissuto della compagnia, fatto anche esso di “attentati” alla sopravvivenza e rinascite tenaci. Ora sono basati a Ortona. Sognano una factory sui mestieri della scena, ma poi fanno i conti con un figlio a casa con la febbre e devono scappare appena finiamo. Le compagnie familiari, si sa, vivono anche di questi squilibri.
Chiudono le narrazioni, Frosini e Timpano. Fanno un excursus sull’iter concettuale che ha portato alla fusione umana e poetica dei loro percorsi, sulla fatica di trovare il codice che li accogliesse entrambe e che negli ultimi lavori, da Acqua di Colonia in poi, pare essersi reso più nitido, tanto da portare alla creazione, in qualche modo nel solco della prima, de Gli sposi – romanian tragedy (2018, testo di David Lescot). Il filone che intreccia società, storia, presente, disgregazione, pare alimentare uno spazio creativo in cui trovano un equilibrio compositivo.
E quindi giustamente va distrutto. Almeno in apparenza.
Arriva il bisogno di andare oltre il duo: arriva così Ottantanove, che li vede in scena alla prova del trio con Marco Cavalcoli, produzione del Metastasio di Prato. All’orizzonte ora c’è Disprezzo della donna. Il futurismo della specie, un lavoro sul femminile nel confronto fra la poetica e il paradosso futurista e la realtà contingente. Debuttano la prossima primavera.
Questo è successo nelle rispettive prime ore. Ma ciascuno di loro ne aveva anche una seconda a disposizione in cui, dopo l’esposizione di ciascuno, il format prevede che le questioni emerse si aprano al dibattito con i colleghi presenti.
Gli artisti sono stimolati dalla testimone interessata, dal narratore e dalla testimone CReSCo, e dal dialogo tra artisti, per nutrire ulteriormente il processo.
E qui, tornando in flashback a Borghesi con in mano il mattone, lo stesso, messo alle strette, deve ammettere l’imbarazzo di essersi trovato davanti a queste titaniche figure operaie, nel grasso odore della fabbrica; lui che a confronto con questi epici ultimi eroi della fabbrica si fa scappare di bocca un “io non ho mai lavorato”.
Gli suggeriamo sghignazzando un mese di pratica agreste nell’incipiente campagna di raccolta delle olive, per mettersi marxianamente alla prova, ma nel gruppo c’è timore che dopo le fatiche in bici per Coprifuoco/Spedizioni notturne per città deserte, il delivery teatrale realizzato durante il periodo pandemico con lui a portare in giro spettacoli vestito da rider, abbia già raggiunto il cumulo di dispendio energetico annuo.
Riusciranno il nostro eroe e i suoi sodali a venire a capo del libro che ha rivoluzionato la storia del secolo scorso?
Lo aspettiamo, con la sua compagnia, alla prova di Marx, incalzato dalle domande, questa volta serie, sul perchè Kepler avverta la necessità di una narrazione partecipata, o sul perchè un attore non possa interpretare l’operaio e se occorra davvero avere in scena proprio l’operaio. Interrogativi che restano assoluti rispetto alla pratica del teatro partecipato, anche per scongiurare, nel tempo, il rischio di replicare copioni in cui cambia solo l’oggetto occasionale del pretesto creativo, l’osservato, ma non il tipo di osservazione. Chiude facendoci sentire un audio in cui un operaio gli dice come dovrebbe essere l’inizio del suo spettacolo. Verrà esaudito?
Con il duo Patalò invece, la discussione è concretissima. Hanno il debutto di Tell Tale a meno di 7 giorni, eppure siamo suggestionati anche da questa materia filmica, e ragioniamo con loro su come darle valore, e sulla circostanza che, dopo il debutto contingente, loro non possano dedicare qualche pensiero alla possibilità di innestare ad esempio alcuni segni filmici nel tracciato scenico, considerando la perfetta sovrapponibilità drammaturgica e la filigrana analoga.
Intanto loro continuano a sognare la tournée e le date americane, sfumate per ben due volte per le questioni del coronavirus a pochi giorni dal decollo. E noi, comunque trascinati nell’emozione del racconto delle pataliche fatiche, si tifa per il loro decollo. Lui scappa al Teatro degli Atti a Rimini.
La settimana dopo hanno debuttato. In scena, con loro due, i figli. Qui la foto del flashforward.
Con il duo Scognamiglio-Sorino ci mettiamo in ascolto non solo di letture e suggestioni, ma guardiamo, dibattendo con loro, pezzi di spettacoli e riflettiamo anche di cosa significhi allargare una compagine artistica, come si scelgono le figure da inserire in uno spettacolo, ma anche su come sia complesso anche solo nella dualità il tema della co-creazione, del segno identitario, del co-dirigere, dello scegliere se essere in scena o meno. Interrogativi che si riflettono nella natura stessa delle creazioni e del tipo di linguaggio che si va a scegliere. Un tema che sarebbe poi venuto fuori con Frosini/Timpano, cui andava la parola dopo di loro, e di cui abbiamo già detto in parte sopra.
E al duo romano torniamo per concludere con il racconto dei question time, perchè ci sorprendono, tirando fuori dal cilindro qualcosa che non ha a che fare con gli spettacoli (in senso relativo), e anche perchè è un vero fuori pista rispetto al loro percorso più tradizionale e lineare: parliamo del progetto performativo installativo intitolato Archeologie future – 5 installazioni per drammaturgie sonore, un percorso di reinvenzione sonora a cura di Lorenzo Danesin, di alcuni spettacoli a partire da frammenti drammaturgici e dai materiali attraversati nel percorso di ricerca e scrittura, in particolare, di Dux in scatola, Ecce Robot, Zombitudine, Acqua di Colonia, Ottantanove. Un’idea nata durante il lockdown del 2020, quando sorgeva spontanea la necessità di reinventare la propria produzione artistica in formati altri, e che ha dato vita a installazioni sonore site-specific, dove i testi della compagnia dialogano con musiche conosciute e nuove, con ambienti sonori, voci e citazioni. Ascoltiamo le belle tracce audio cui sono abbinate, nell’itinerario installativo (proposto per la prima volta al Pim Off di Milano a giugno 2021) alcune stazioni oggettuali, quasi archeologiche appunto. Ma lo spettatore è libero di muoversi fra le installazioni o deve seguire un ordine? Daniele ci stronca:”Ma che libertà?? Nessuna libertà! Già ne hanno troppa!” Ridiamo prima di andare a pranzo, mentre inizia a piovere vigorosamente.
È domenica.
La pioggia è veramente fortissima e dissuade alcuni ospiti del pomeriggio dall’intervenire alla sessione aperta al pubblico, ma ciò nonostante abbiamo qualche coraggioso che sfida le intemperie e dialoga con gli artisti. Sono persone che hanno a che fare con il mondo delle arti, che creano in qualche forma limitrofa al teatro, e che interrogano gli artisti su dove inizino le geografie delle arti, su chi tracci i confini, chi attribuisce le possibilità. Si atterra anche sulle malattie del sistema, sul marcio sotto le tavole del palcoscenico.
Strano: mi aspettavo curiosità più contingenti, domande sul: come fate, come risolvete. Invece diventa un po’ un dialogo sulle sofferenze percepite, sulle reali possibilità che la società attribuisce, sulla sensazione tangibile di quanto ciò avvenga in modo diseguale, sui vizi di sistema che non riusciamo forse nemmeno a vedere o a pensare di poter risolvere.
E torna in mente la metafora riportata da Scognamiglio durante una delle letture che ci aveva favorito: siamo un po’ come pesci nell’acqua, e quindi semplicemente non percepiamo l’acqua, finiamo per darlo come elemento naturale in cui nuotare, immutabile.
Questo Stato (liquido) dell’arte, che a tutti appare vieppiù inquinato, consente comunque parentesi di umanità che poche altre aree della relazione umana permettono.
È onestamente un incontro fuori dal mondo: questo stare chiusi nel racconto e nel mettersi a disposizione, questo esporsi a colleghi di cui si sente parlare ma che magari non si conoscono, diventa occasione per sentire, per capire, per farsi suggestionare.
In apparenza tutti tornano alle loro case come erano arrivati. In sostanza, penso di poter dire che ciò non sia poi vero. Sicuramente è una pratica trasformativa.
Non saprei spiegare quale sia il reale confine del prendere e lasciare, in questi casi. Ma anche ora, a distanza di due settimane da quel saluto, ho memoria precisa di tantissimi momenti, di istantanee e brevi montati mentali del cosa si è fatto, del cosa si è detto. Persino suggestioni artistiche e creative che porto con me, amplificate dall’isolamento in cui siamo stati immersi. Questo è stato lo Stato, allo Spazio Matta, Pescara, il 10 e 11 ottobre 2021.