ELENA ZETA GRIMALDI | Sempre di più, sempre più spesso, sentiamo parlare e, a volte, chiediamo noi stessi, di essere tutti più uguali. Ma, come Schulz faceva dire al suo Linus in una vignetta dei Peanuts, bisognerebbe fare attenzione a quello per cui si prega, perchè poi potrebbe avverarsi. La strada per arrivare alla tanto invocata ‘uguaglianza’ è disseminata di bivi che potrebbero portare a sorprese concettuali non banali.
C’è da interrogarsi sul significato da attribuire a questo termine, da non intendersi come un livellamento sterile verso l’omogeneo, ma la consapevolezza che l’esistenza dell’universo è possibile grazie alla danza delle alterità. A parlarne si ha l’impressione che siano concetti ormai assunti e metabolizzati dalla generalità delle persone, ma la realtà è che la maggior parte di noi si trova ancora a disagio messo di fronte all’altro da sè.
La compagnia Nèon Teatro, già da anni comunanza di «insoliti corpi», continua la sua ricerca di un teatro «non volto a normalizzare lo straordinario, bensì a viverlo» con lo spettacolo Anima mundi che, dopo Ciatu e Invasioni, conclude il Trittico della felicità umana, progetto nato dalla lettura di L’anima del mondo e il pensiero del cuore di James Hillman (Adelphi, 2002).
Alla prima nazionale, nel foyer della sala Verga del Teatro Stabile di Catania una donna attraversa la piccola folla di spettatori a passi lenti, tirandosi dietro un pannello di plexiglass su ruote, e si posiziona all’entrata della platea. Scrive, cancella, riscrive in ogni direzione frasi su frasi, con un tratto d’inchiostro trasparente quasi quanto il suo supporto; chi si avvicina per decifrare quei simboli, per cercare il suo sguardo, non ha successo: è come se nessun altro esistesse oltre lei e le sue parole.
In sala, tra il chiacchiericcio d’attesa indifferente alla scena, un’altra donna allunga i suoi passi sul palcoscenico, seguita da un lungo strascico di plastica che le funge da gonna; movimenti lenti, delicati, precisi, che contrastano con la forza necessaria a issarsi sulla corda, e restare seduta là, nel vuoto, immobile, in solitaria attesa. S’intravede di nuovo la donna col pannello di plexiglass, cammina intorno alle poltrone, esce con discrezione da una porta laterale. Nei minuscoli interstizi dei nostri saluti, nei respiri tra una frase e l’altra, questi corpi vivono intanto, discreti.
Gli stessi corpi che ci si presentano, moltiplicati, all’abbassarsi delle luci: spezzati, camminano claudicanti senza una scarpa, isolati, ognuno monade sulla sua seduta, ma uniformati dall’intimo color carne che li veste e li spoglia insieme, dalle mascherine ffp2, dello stesso colore, che deformano i profili rendendoli quasi inumani. Poi, quando tutto sembra fermo, Monica Felloni, con un lungo mantello di plastica, entra dal corridoio della sala: regista, profeta, sciamana della comunità di corpi sul palco e in platea, alito di vento che scompiglia l’immobilità. La sua voce registrata ci guida attraverso i quadri dello spettacolo, aleggia nella sala − proviene da un altro mondo? È immanente nell’anima collettiva? −, concede momenti di tregua meditativa dalla foga dei corpi che si affannano nel mantenersi in vita.
È un rituale collettivo quello a cui prendiamo parte, si svolge davanti ai nostri occhi e inonda la nostra anima di emozioni forti, di domande, di dubbi, che vengono suscitati per poi lasciare che si spengano nelle immagini oniriche che ci si offrono. Docce purificatrici di sale e mais, lavaggi cerimoniali di pittura che fanno incontrare i corpi e li liberano dall’asfissia dei teli di plastica, figure che si sdoppiano in sagome d’ombra sugli sfondi irradiati di luce o di altrettanto evocative cartoline-collage di pennellate e parole.
Col procedere dello spettacolo, la sensazione di scomodità si diluisce, solitudine e difformità si trasformano in comunità: se all’inizio si è istintivamente portati a ricercare la diversità per classificarla, a poco a poco le nomenclature e le definizioni si rivelano prive di senso, semplicemente e naturalmente svaniscono. A farla da padrone è il corpo, tutti i corpi, quelli che piroettano in aria appesi a una corda e quelli che volteggiano su una sedia a rotelle, quelli che camminano e quelli che vengono presi in braccio, quelli che ballano il twist e quelli che fanno headbanging.
Tra una ballata d’amore di Mina e un frenetico rock dei System of a down, le movenze perdono di proprietà, i segni mutano significato, si mescolano, ognuno si appropria dei codici degli altri, rendendoli universali e ricucendo le sponde del precipizio che separava ‘uguale’ e ‘diverso’. Quadro dopo quadro, scompaiono anche le mascherine mediche, lasciando in primo piano i volti e la loro maschera di pelle dipinta di rosso intorno agli occhi, specchio dell’anima che ci invita all’unica cosa sensata da fare: «dedicarsi all’errore», indagare il contrasto, trovare il noi nell’io.
Quando un’attrice compare sul palco nel silenzio e indossa occhialini da piscina, una sciarpa e un gilet, ormai catturati nel turbinio di figure, è straniante la solitudine di questa aviatrice seduta a lato del palco. Ma subito dietro di lei compaiono le immagini subacquee di una piscina, ancora una volta i corpi si moltiplicano, aviatori e aviatrici si tuffano, nuotano, si confondono, nell’assenza di gravità acquatica ognuno può di fatto di volare.
Dopo un lungo applauso liberatorio, lo spettacolo si chiude con un coro di umanità: la Felloni dirige le voci che si mischiano, si rincorrono, dal sogno ci riportano all’affascinante concretezza di una babele che vive nelle strade; di Catania, di ogni città, di ogni luogo, dove la vita danza inturciuniata, anima collettiva di un mondo stra-ordinario.
Con una semplicità che ci coglie impreparati, Anima mundi utilizza i contrasti per creare, non uniformità, ma universalità. Grado per grado, annulla l’etichetta della diversità per riportarla a pura percezione, dissolvendo l’istintivo giudizio nell’ipnosi di una collettività di corpi indistinti, eppure così personali, particolari, unici e uguali allo stesso tempo: «Cosa c’è di te in me? E cosa c’è di me in te?». Ancora una volta, la chiave del viaggio intracciabile della vita risiede in una domanda.
ANIMA MUNDI
di Nèon Teatro
regia Monica Felloni
testi a cura di Piero Ristagno
con Dario Conti, Emanuela Dei Pieri, Martina Di Prato, Teresa Fazio, Monica Felloni, Danilo Ferrari, Patrizia Fichera, Stefania Licciardello Anzalone, Angela Longo, Manuela Partanni, Matteo Platania, Dorotea Samperi, Francesca Sciatà
aiuto regia Manuela Partanni
danza aerea Alejandra Deza Moreno, Gaia Santuccio
assistenza tecnica Ségolène Le Contellec
light designer Francesco Noè
cartoline Renzo Francabandera
riprese video Jessica Hauf, Luca Di Prato
tecnico arrampicatore – rigger Salvatore Pappalardo
produzione Teatro Stabile di Catania
Teatro Stabile di Catania, sala Verga
14 novembre 2021