CLAUDIO LATERZA | “Mettere in crisi il senso comune in cui stereotipizziamo i nostri punti di vista”: questa l’ambizione, con le sue creazioni, di Emanuele Aldrovandi.
Considerato uno degli autori più interessanti del panorama della scrittura per il teatro e il cinema, il drammaturgo e regista emiliano ha ormai guadagnato fama internazionale e le sue opere sono state messe in scena nei principali teatri italiani e recentemente anche in alcuni teatri europei e americani.
Nella sua carriera, nonostante la giovane età, già numerosi sono i premi fra cui il Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli, il più importante riconoscimento italiano per la nuova drammaturgia, con Homicide House, e poi il Premio Hystrio, il Premio Nazionale Luigi Pirandello e il più recente Nastro d’argento grazie al cortometraggio Bataclan. Un autore che attraverso la sua scrittura semplice ed efficace cerca di rappresentare la realtà in tutta la sua complessità, senza il timore di mettere in scena molteplici punti di vista, anche i più estremi.
Lo abbiamo intervistato.
Emanuele, ti sei laureato in Filosofia a Parma. Quanto influisce, nei tuoi testi, questa formazione filosofica?
La filosofia ha sicuramente influito parecchio nella realizzazione dei miei testi, e il modello platonico in particolar modo. Infatti, in quei dialoghi fatti di domande e risposte (come nel cortometraggio Il Progresso), in cui si cerca di arrivare a una definizione senza mai arrivarci c’è un richiamo al modello dei dialoghi platonici; ed è un modello che mi piace, che mi permette di approfondire un tema senza dare risposte, ma allargando le domande. Quindi sì, l’approccio relativista alla conoscenza mi è più affine e a volte lo faccio anche involontariamente, perché fa parte di me: non mi piacerebbe scrivere di una cosa mettendo dei paletti.
I temi affrontati nelle tue opere sono “forti”, complessi, a volte quasi indicibili. Una scelta che non teme di investigare anche i punti di vista più scomodi. Quale obiettivo si pongono queste indagini così profonde?
Ah, sicuramente cercare di far riflettere le persone attraverso l’esposizione delle estreme conseguenze della realtà, i suoi paradossi, i punti critici, in modo da moltiplicare le possibilità immaginative degli spettatori, soprattutto in un epoca in cui gli algoritmi tendono a farci vedere cose su cui siamo già d’accordo. Abbiamo una tendenza, in generale, a ricevere opinioni che rafforzano il nostro punto di vista, perché l’obiettivo principale dei mezzi di informazione non è quello di informarci ma è quello di tenerci agganciati, per farci legare di più sempre agli stessi canali, per poi veicolare la pubblicità. I giornali, i quotidiani cercano il più possibile di polarizzarci, per avere più lettori, gente che li segue e quindi gente a cui vendere la pubblicità.
Questa cosa qui, uccide il pensiero critico, uccide la possibilità di sviluppare punti di vista divergenti, di vedere che ogni argomento ha varie sfaccettature, una complessità che va al di là del semplice “io sono contrario a questo” e “io sono a favore di quello”: sono delle semplificazione ma la realtà è ben diversa. L’arte è una delle poche cose che permette di fare invece proprio questo.
La gente segue una storia, segue un percorso.
Se viene condotta a pensare delle cose e poi a mettere in crisi le cose appena pensate, io in primis sono felice: la persona esce da teatro o dal cinema in difficoltà, perché non sa più cosa pensare. In questo senso mi sembra di aver svolto un ruolo civile. Mettere in crisi il senso comune in cui stereotipizziamo i nostri punti di vista.
Ma secondo te Shakespeare ancora influenza chi scrive per il teatro? Ha influenzato anche il tuo modo di scrivere? E se sì perché?
È sicuramente un punto di riferimento, come per la maggior parte delle persone che fanno questo lavoro nel mondo occidentale negli ultimi 500 anni, ma lo è soprattutto per il riuscire ad avere più livelli, perché Shakespeare riusciva a scrivere testi che parlavano al popolo analfabeta, alla media borghesia e alla corte super acculturata.
Aveva questa molteplicità di strati che lo rendeva colto, popolare e universale.
Una cosa che invece trovo, purtroppo, soprattutto nel tetro contemporaneo è che ci si ponga poco questo problema di accessibilità.
Anzi, si parte dal presupposto del dover essere per una piccola elite di persone che vanno a teatro.
Oppure, quando il codice vuole essere popolare, la scrittura si abbassa di livello in modo eccessivo. C’è scarso interesse nel fare qualcosa che sia per tutti ma allo stesso tempo con un alto livello contenutistico e culturale. Questo, secondo me, è quello che manca di più al teatro contemporaneo. Quando invece c’è l’autore che riesce a trovare la via di mezzo tra il popolare e il colto, allora si riesce a parlare a tanti e a dire cose profonde: in questo senso Shakespeare è sicuramente un maestro.
Il paradosso come espediente retorico risulta centrale nella tua scrittura. In molte drammaturgie è addirittura il meccanismo attraverso il quale viene sviluppato l’argomento. Qual è la sua funzione?
Nella vita ognuno deve compiere delle scelte, a partire da un ragionamento etico personale, in base al quale ciascuno sa cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa vuole e cosa non vuole; ognuno cerca di sapere cosa è bene e cosa è male, agendo in base a quello che pensa sia giusto.
Per chi dovesse applicare il relativismo completo nella dinamica esistenziale, diventerebbe impossibile scegliere di fare una cosa o un’altra.
Secondo me è sempre importante preservare uno spazio libero in cui siamo in grado di pensare sia una cosa che il suo opposto e di mettere in discussione anche tutte le cose che crediamo nella vita quotidiana. Quindi quando io mi metto nei panni dei neofascisti come in “Allarmi” non è che io concretamente non abbia miei punti di vista, però mantengo nel mio cervello una parte che mi permette di poter pensare qualsiasi cosa, ed è quella parte lì che vorrei che anche gli spettatori avessero, perché è quella parte lì che poi permette di essere tolleranti, di accettare colui che la pensa diversamente ed essere socialmente innocuo.
Un’altra delle armi cui più di frequente la tua scrittura fa ricorso è l’ironia. In che modo si introduce in una gestualità questo elemento? La ritieni collegata in qualche forma all’uso del pensiero divergente a cui facevi cenno prima?
L’ironia è fondamentale, ma non è una scelta volontaria, è il mio approccio alla vita che tende a essere così e quindi inevitabilmente si riflette anche nelle cose che scrivo. Però credo che abbia una grande forza per “scardinare” le incrostazioni del nostro pensiero e per liberare la possibilità di immaginare cose diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati; poi a volte c’è il rischio che diventi un “contenitore vuoto” ma io cerco sempre di usarla senza farle perdere il suo potenziale sovversivo e rivoluzionario.
Negli ultimi anni ti sei affacciato a due mondi che sembrano condividere su panorami simili, ma che sono probabilmente assai diversi: il cinema e il teatro. Qual è la differenza che più hai sentito e in quale dei due “mondi” ti senti più a tuo agio?
Per quanto riguarda i due mezzi, diciamo che farli entrambi mi permette di chiedermi “Perché questa storia la racconto qui e questa invece là?” Cioè, mi permette di interrogarmi nel merito e in modo approfondito sulla specificità dei due mezzi. Alla fine l’importante è questo, sapere perché ne stai usando uno rispetto ad un altro.
Pensieri per l’anno prossimo? Cosa porterà questo anno nuovo. Stai pensando di girare un lungometraggio?
Si, sto lavorando alla produzione del film di Homicide House con la casa di produzione Romans Elio Film.