ELENA SCOLARI | A 28 anni, nel 1849, Fëdor Dostoevskij fu arrestato perché accusato di far parte di un gruppo di dissidenti che pubblicava volantini con idee antizariste. Per questo venne condannato a morte. Si trovava già con il cappuccio in testa insieme ad alcuni compagni, sul patibolo, pronto a essere fucilato quando un ufficiale in carrozza arrivò a comunicare la notizia della grazia concessa dallo zar Nicola I. Una questione di minuti: un po’ di neve in più sulla strada, una sosta per far bere i cavalli e… Non lo diciamo nemmeno.
La pena venne commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Era comunque una sanzione di tutto rispetto. Per un reato d’opinione.
Credo che questo fatto debba sempre essere ricordato quando si parla di Dostoevskij e delle sue opere. Prima del 1849 aveva avuto un grande e inaspettato successo con il romanzo Povera gente, che sorprese tutta l’intellighenzia russa; pubblicò poi Il sosia (che non venne capito) e poi ci fu una pausa di quasi dieci anni, dovuta anche agli anni in esilio, in cui lo tennero lontano da Mosca e San Pietroburgo, anni nei quali scrisse molto ma non pubblicò nulla.
Memorie dal sottosuolo è del 1864, quindici anni dopo la scampata morte, ed è una summa dei molti lati sgradevoli, abietti, ipocriti che l’autore ha incontrato nel prossimo e sicuramente in sé stesso, nel corso di una vita piena di difficoltà, di miseria, di infernale dipendenza dal gioco e segnata da un indomabile desiderio d’amore, sia quello romantico sia quello che nasce da un profondo senso dell’amicizia tra uomini. Il sottosuolo ce l’abbiamo tutti: è lo sgabuzzino buio dove teniamo i pensieri rotti, le idee sconvenienti, le pulsioni primarie che la società ci ha insegnato a controllare. Il protagonista del racconto spiattella il suo sottosuolo davanti al lettore, prendendolo spesso in giro, contraddicendosi per disorientarlo.
Nell’adattamento teatrale che Marco Isidori dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa ne ha tratto è Paolo Oricco che butta addosso al pubblico rancore, fastidio, rabbia insoddisfatta, disprezzo e frustrazione: «Vi assicuro con la massima serietà che molte volte ho desiderato diventare un insetto. Ma non ho ottenuto neppure questo onore». (E chissà se Kafka se ne ricordò per il suo Gregor/scarafaggio).
Oricco è in abito scuro con panciotto, pantaloni over size che lo fanno un po’ clown, biacca in viso e grossolane scarpe da ginnastica bianche. Compare in scena sbucando da un fondale di Daniela Dal Cin (Trionfo della morte, ispirato all’affresco del ‘400 conservato a Palermo), un tazebao sgargiante, colorato, al cui centro campeggia la morte in forma di scheletro di uccello con artigli a forma di falce, intorno al quale sta una folla di uomini e donne contemporanei, molti con il telefonino all’orecchio: “le bestie comunicanti”, sono definite nel programma di sala.
In questa operazione che vuole mostrare la mala-comunicazione in cui anneghiamo oggi, Oricco è impegnatissimo, dall’inizio alla fine, in una prova recitativa senza dubbio faticosa e che mostra la plasticità dell’interprete. La prova è altrettanto impegnativa per lo spettatore. Oricco è bravo ma usa, sempre, un tono d’attacco, gridato, un modo gommoso di pronunciare alcune battute che deforma l’espressione in smorfia e fa a volte sfuggire le parole. A volume e aggressività si fa meno caso dopo i primi respingenti dieci minuti, più per sopravvivenza che per organicità al progetto, ma questa scelta è accompagnata da una continua maniera volutamente ostentata, un espressionismo caricato che passa da Jim Carrey in The mask al Joker di Nicholson; e purtroppo la forma fagocita il contenuto. Diventa quasi impossibile seguire le riflessioni e le ondulazioni del testo – pur ben costruito ma che non si afferra in un istante, pieno di pensieri e di cambi di prospettiva – in un tale frastuono di stile, mai pago, che mai prende fiato né lo lascia prendere. Viene da dire “Scusa, me lo ridici piano, per favore?”.
Ed è un peccato perché la scrittura è curata, un po’ affettata ma con la giusta pedanteria di qualcuno che sta autoanalizzando le proprie perversioni e le proprie innumerevoli sconfitte. Isidori usa una lingua vagamente testoriana, adatta l’originale rendendolo più arringa che confessione, più comizio che dichiarazione pubblica.
L’acredine vergognosa e puzzolente che intride le parole dell’ex impiegato statale malato di fegato soccombono sotto un gran lavorio attorale che ottiene un risultato complessivamente statico. Le luci, curate da Fabio Bonfanti e Paolo Scaglia identificano sostanzialmente tre zone e tre piani, difficile entrare in dialogo con l’arazzo affollato da personaggi e saturo di colore.
Il testo di Dostoevskij è anche una critica contro la supremazia della razionalità che andava per la maggiore in quel periodo, contro il fatto che tutto possa essere regolato a discapito del libero arbitrio e quindi di una (presunta) maggior libertà dell’individuo. Infatti nel racconto è chiaro che questa storia matematica che 2 + 2 faccia sempre 4 sia per l’impiegato una gran seccatura. A questa posizione “ribelle” la presenza di Oricco in scena fa corrispondere una partitura di gesti precisa e niente affatto spontanea come se lo stesso protagonista mostrasse nei movimenti l’impossibilità di dare seguito ai propri aneliti.
Le posture artificiali richiamano il modo innaturale in cui l’uomo del sottosuolo si è ripiegato, su sé stesso ma anche sul proprio malcontento.
Del resto il protervo impiegato all’inizio avverte che «questa cicalata ci irriterà»; superata l’irritazione, a giorni di distanza, affiora una sensazione compassionevole verso un personaggio che si dice cattivo, ma è soprattutto solo; e ha solo quell’ora di palco per condividere con qualcuno lo sua rabbiosa requisitoria.
MEMORIE DEL SOTTOSUOLO
da Fëdor Dostoevskij
adattamento drammaturgico di Marco Isidori
regia Marco Isidori
con Paolo Oricco
assistente alla regia Ottavia Della Porta
tecniche Sabina Abate
luci Fabio Bonfanti e Paolo Scaglia
scenario “Trionfo della Morte” di Daniela Dal Cin
produzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
Teatro Elfo Puccini, Milano
16 dicembre 2021