Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
(Inferno, canto V)
ILENA AMBROSIO | C’è un punto, all’inizio dell’ultimo movimento della Nona di Beethoven, che è forse il picco della suprema genialità dalla quale scaturì l’opera. È il momento in cui si sviluppa il materiale musicale di una novità assoluta per l’epoca: l’introduzione della voce in una composizione sinfonica. Una cosa inaudita. Ma il genio di Beethoven non la impone ex abrupto, la innesta nel tessuto melodico, quasi con un compiaciuto inganno, riproponendo frammenti dei temi ascoltati nei movimenti precedenti; pezzi di realtà già udita che generano l’inaudito, l’inaspettato. Il punto di arrivo è la luminosità dell’Inno alla gioia ma l’effetto che genera quella strategia ha un che di misterioso e sfuggente.
Ho riascoltato la Nona il giorno dopo aver visto i Peeping Tom e non ho potuto fare a meno di pensare di aver assistito allo stesso ingegnoso meccanismo, riproposto allo sguardo nelle tinte, però, dell’assurdo e della distonia. Una dimensione terrificante calata in una realtà oggettuale del tutto comune e apparentemente nota. Udita.
La direzione del Teatro Bellini di Napoli ha avuto l’audacia e la necessaria apertura di prospettiva per accogliere Diptych della compagnia belga, un dittico di due pièce originariamente create da Gabriela Carrizo e Franck Chartier per la il Nederlands Dans Theater: The missing door e The lost room.
Missing – Lost. E hidden se consideriamo anche un terzo pezzo – The hidden floor – presentato solitamente in trilogia.
Scomparso – Perso – Nascosto.
Cosa? La poetica visionaria e allucinata dei Peeping Tom si gioca qui sull’evocazione di un sommerso, un freudiano rimosso traumatico, che resta celato ma dal quale gli umani in scena – privi di nome, di identità definita ma evidentemente segnati da una storia – sono continuamente sconvolti.
Ed è da qualcosa di comune e familiare che quel ciarpame irrompe: da porte. Cinque porte in fila su un pannello ad angolo ottuso, nel primo pezzo; ante di armadi in una stanza d’albergo o forse in una cabina di una nave, nel secondo. Confini di un dentro al di là del quale si staglia un grigio pannello di palazzi, come l’interno di un cortile, il fuori. Cosa ci sia tra l’uno e l’altro non è dato saperlo ma di certo è qualcosa di orrendo e indicibile dal quale si catapultano in scena o ne vengono risucchiate queste figure dallo sguardo smarrito, atterrito, che vivono frammenti di storie delle quali ci sfugge la visione d’insieme: un incontro romantico, un omicidio, un figlio strappato dalle braccia della madre; follia, desiderio, paura.
Gli otto fenomenali interpreti prestano una portentosa padronanza del gesto – quello più impercettibile come il sussulto di un respiro, così come quello aperto e ampio delle contorsioni di due corpi che danzano un amplesso – al racconto di questi umani imprigionati in un inferno dall’assurdità sartriana ma che pure rievoca l’abissale magma di pena e sofferenza dell’inferno dantesco.
Così una illogica e crudele legge del contrappasso li obbliga a esistere – difficile dire vivere – e resistere in una dimensione ostile nella quale gli oggetti sfuggono, schiacciano con il loro peso, risucchiano. Uno straccio scappa all’urgenza di mani che vogliono lavare via il sangue che imbratta il pavimento; delle scarpe si ribellano ai piedi che vogliono calzarle; valigie, cumuli di lenzuola schiacciano una cameriera; un letto cela dietro il suo aspetto confortevole una natura cannibale, inghiottendo i corpi in un abisso oscuro. Persino il corpo si ribella al controllo, impedisce i gesti volontari, violenta sé stesso, obbligato a una perversa dipendenza dalla stessa energia che sbatte, fa tremare, scuote quelle porte maledette.
Nello spazio gelido di una stanza indefinita – il corridoio di un albergo? Di un treno? – così come nell’apparente calore di una camera da letto, le otto figure si muovono come monadi dannate ma allo stesso tempo legate, anzi, incatenate; ma non da una esplicita relazione bensì dal far parte dello stesso disegno malefico e assurdo nel quale sono burattini privati dell’autodeterminazione e continuamente scossi, sballottati, trascinati, lanciati sulla scena da una forza sconosciuta che non ha pietà né compassione.
È questa furia indistinta che scatena venti impetuosi, che rende le porte indemoniate, che toglie l’equilibrio giocando sadicamente con la gravità, la vera protagonista. Da lei si sviluppa il cinematografico susseguirsi di scene nelle quali l’assenza quasi totale della parola è compensata dall’espressionismo del complesso impianto coreografico e dei volti sui quali appaiono, come dipinti, i tratti della paura, dello sconforto, del piacere, della disperazione.
Ma non ci si aspetti una “storia”, una trama placidamente dipanata in un assetto drammaturgico. Dietro c’è probabilmente, certamente, ma ciò che viene offerto allo sguardo sono gli esiti, le reazioni, i gesti reiterati e ossessivi che quella vicenda – il trauma di una perdita, una colpa, un rimorso – ha generato.
Offerto allo sguardo, ho detto. Meglio sarebbe dire datogli in pasto.
Peeping Tom, personaggio della leggenda anglosassone di Lady Godiva, è il nome con il quale in inglese si indica un voyeur, un guardone.
I guardoni sono in scena, sono le figure che passano come spettri dietro un vetro, che si nascondono alle spalle di una poltrona; sono gli stessi interpreti seduti ai lati dello spazio d’azione o che manovrano i due grandi riflettori su treppiedi, proiettando su questa umanità scomposta una luce invadente e inquisitoria.
Ma guardoni lo diventiamo soprattutto noi scrutando quei corpi, lo spaesamente dei loro visi, l’erotismo e la violenza dei loro abbracci; li osserviamo cercando di cogliere un segno, il dettaglio che sveli cos’è che vivono, cosa hanno vissuto, cosa li muove e li sconvolge. Ma il linguaggio onirico di Carrizo e Chartier non sembra essere stato creato per soddisfare la comprensione razionale; è, la loro, una comunicazione diretta allo sguardo e all’inconscio, che non vuole raccontare ma connettersi al rimosso, a una sfera pre-logica. Inutile cercare di spiegarsi ciò che accade, forzare, imporre una ragione, un senno, la logica della consequenzialità, il principio di causa effetto. Molto più efficace e appagante abbandonarsi a quello stato di trance che ha qualcosa di magico e insieme di terrificante, al flusso sinestetico di suoni e immagini che neppure il cambio di scena a vista, con i tecnici che si affiancano agli interpreti, riesce a spezzare. Anzi, ne intensifica l’effetto dì straniamento, la dimensione – effettivamente, non per cliché o per moda – distopica.
Come si esce da tutto questo? Come tornando da un viaggio in un’altra dimensione in cui tutto potrebbe essere normale ma non lo è. Un universo altro che sconvolge per la sua crudezza e insieme ipnotizza per la sua perfezione.
Un universo che non si riesce a smettere di guardare.
DIPTYCH: THE MISSING DOOR & THE LOST ROOM
concept e regia Gabriela Carrizo, Franck Chartier
interpreti Konan Dayot, Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Wan-Lun Yu
comunicazione Sébastien Parizel
company manager Veerle Mans
assistente alla creazioneThomas Michaux
musica originale Raphaëlle Latini, Ismaël Colombani, Annalena Fröhlich, Louis-Clément Da Costa, Eurudike De Beul
disegno luci Tom Visser
scenografia Gabriela Carrizo, Justine Bougerol
costumi Seoljin Kim, Yichun Liu, Louis-Clément Da Costa
coordinamento tecnicoPjotr Eijckenboom (creation), Giuliana Rienzi
tecnici Bram Geldhof (lights), Tim Thielemans (sound)
stage management Johan Vandenborn (stage manager), Clément Michaux (stage assistant)
manager alla produzioneHelena Casas
produzione Peeping Tom
coproduzione Opéra National de Paris, Opéra de Lille, Tanz Köln, Göteborg Dance and Theatre Festival, Théâtre National Wallonie-Bruxelles, deSingel Antwerp, GREC Festival de Barcelona, Festival Aperto / Fondazione I Teatri (Reggio Emilia), Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale (Turin), Dampfzentrale Bern
Diptych: The missing door and The lost room è stato creato con il supporto di Tax Shelter of the Belgian Federal Government
distribuzione Frans Brood Productions
Teatro Bellini, Napoli
17 dicembre 2021