ROSSELLA PICCARRETA | Il filosofo Diogene, “il Socrate impazzito”, come lo definì Platone, girovagava per le strade in pieno giorno con una lanterna in mano alla ricerca dell’uomo capace di vivere secondo la propria genuina natura, al di là di tutte le esteriorità, le convenzioni e le regole imposte dalla società.
Fa pensare a lui e alla sua illuminata follia la luce nella busta di plastica celeste di Dino (Francesco Zaccaro), protagonista di Sammarzano, andato in scena recentemente al Kismet di Bari e alla Cittadella degli Artisti di Molfetta con la regia di Ivano Picciallo.
Prodotto da Teatri di Bari e finalista del Premio Scenario 2019, lo spettacolo di Malmand Teatro racconta tematiche sociali complesse: il lavoro nero, il caporalato, l’immigrazione e i problemi di un Sud che ancora non si è emancipato economicamente da un retaggio storico ottocentesco.
E lo fa senza retorica, con ironia e tragica leggerezza attraverso lo sguardo deformante di un reietto allampanato, buffo e insieme poetico.
Dino è uno di quei personaggi che vivono ai margini, lo scemo del villaggio, con una sua insospettabile saggezza primitiva. Ha un sogno strampalato quanto lui: andare in campagna a fare il bracciante insieme agli immigrati.
Sammarzano è infatti il nome storpiato di una varietà di pomodori, l’oro rosso del Sud, coltivata nella zona della Capitanata. E la storpiatura rimanda a quel modo tutto infantile di pronunciare le parole per assimilazione di fonemi e, dunque, al linguaggio e al punto di vista del nostro antieroe, innocente e ingenuo come quello di un bambino.
Lo spettacolo si sviluppa su due piani: in platea e sul palcoscenico. In platea Dino, in piena luce, si aggira tra il pubblico con i piedi a papera, trascinando passi lenti e dialogando con chi incontra con frasi sconnesse a metà tra l’italiano e il dialetto. Ha un suo personale vocabolario sgangherato, scandito da alcune parole ripetute come un mantra: «Frcat d’ cap» che, più che una confessione o una proiezione, è un’imprecazione contro un mondo, quello degli altri, tanto normale quanto ipocrita, difficile da capire.
E ha le sue miserie: ha perso la madre, con cui mantiene al cimitero un dialogo paradossale, fatto di cibo e quotidianità; forse è addirittura figlio di un caporale, che non lo accetta. Ma le tragedie familiari non lo abbattono, anzi, ha una strafottenza e un umorismo che smontano la realtà e ne svelano le finzioni.
Infatti in Sammarzano si ride anche, nonostante la drammaticità e l’intensità del tema.
E lo spettacolo si rivela brillante e scoppiettante con un bel ritmo vivace, garantito dalla bravura e dall’affiatamento degli attori.
Dino fa la spola tra realtà e visioni, tra la platea e il palcoscenico, su cui si susseguono, senza un vero e proprio filo narrativo, quadri surreali.
In una scena minimale, su un palco quasi vuoto, pochissimi elementi per quadro: due sedie di legno su cui borbottano, inchiodati come basilischi in un film della Wertmüller, vecchi petulanti di spalle, un carretto della frutta con tanto di megafono, che più che un oggetto è un bizzarro costume di scena, realizzato dalla fantasia giocosa di Lorena Curti con una crinolina vuota da cui pendono ortaggi variopinti; una sedia a rotelle con una donna, poeticamente avvolta da una coperta e da una luce ambrata, pronta a mutarsi in un ricordo.
E poi, a raccontare il lavoro duro e malpagato degli immigrati brutalmente sfruttati, cassette di plastica colorate, che all’occorrenza volano in una danza impazzita, e maschere della commedia dell’arte che diventano la pelle e l’anima dei braccianti di colore.
Elemento determinante nel vuoto della scena è inoltre la luce (di Camilla Piccioni), capace di disegnare geometrie, spazi e stanze immaginarie in cui si muovono gli attori. Sono solo quattro ma si moltiplicano, con danze o movimenti stereotipati e simbolici, giocando a vestire i panni di diversi personaggi.
Così Ivano Picciallo, interprete oltre che regista, è prima uno degli anziani del paese con la coppola in testa poi il caporale “brutto e cattivo”, vestito tutto di bianco, disperatamente alla ricerca di braccia pronte a lavorare; poi altro ancora.
Accanto a lui una giostra di tipi e visioni: il prete del paese, il sindaco, i politici, i braccianti, una donna surreale vestita da cardinale su tacchi a spillo, una splendida danzatrice di pizzica, (entrambe interpretate da Adelaide Di Bitonto), un rapper (Giuseppe Innocente) con una maschera da Zanni, il personaggio della commedia dell’arte, il servo, più legato alla terra e alla vita rurale.
Molteplici sono i codici espressivi e gli stili comunicativi utilizzati: il rap e la pizzica, il pastiche di italiano, dialetto e termini inventati, il linguaggio espressivo della maschera (di Officine Zorba), declinato in modo assolutamente originale e, soprattutto, l’abile uso del corpo, che deriva da una lunga esperienza della compagnia nel teatro fisico e d’immagine oltre che nella commedia dell’arte, nel nuovo circo e nelle performing art.
Ivano Picciallo, dunque, con una regia originale e attenta, in cui ogni stravaganza è assolutamente sensata e giustificata, riesce a mettere in scena un tragico affresco del Sud e dei suoi problemi, tanto paradossale quanto familiare.
Con quasi niente sa farci vedere immensi campi punteggiati del rosso dei pomodori e sentire l’afa dell’estate che si abbatte sui braccianti degradati a bestie, il loro sudore, la fatica e insieme l’indifferenza di chi non agisce, non risolve e lascia che tutto accada e rimanga immobile e immutabile come in una storia verghiana.
Tragico e grottesco è l’epilogo: acrobazie a ritmo di musica, fatica fino allo sfinimento e alla morte, maschere vuote su cassette di plastica coloratissime, e una risata pirandelliana sul volto di Dino, strappo feroce di ogni finzione.
SAMMARZANO
regia Ivano Picciallo
aiuto regia Marta Franceschelli
conGiuseppe Innocente, Ivano Picciallo, Francesco Zàccaro, Adelaide di Bitonto
luci Camilla Piccioni
costumi Lorena Curti
maschere Officine Zorba
foto e grafica Manuela Giusto
con il sostegno di I Nuovi Scalzi | Nuovo Cinema Palazzo | Iac Malmand Teatro
produzione Teatri di Bari | Kismet