RENZO FRANCABANDERA | Un uomo anziano, «no viecchio pezzente pezzente; lo quale era cossì nzenziglio, sbriscio, grimmo, granne, lieggio, e senza na crespa ncrispo a lo crespano, che jeva nudo comme a lo peducchio» (un vecchio pezzente miserabile e senza un soldo, dalle tasche così vuote, senza il minimo gonfiore al borsellino, che se ne andava in giro nudo come un pidocchio): è il protagonista di Pupo di zucchero.
Parla in un napoletano del Seicento, tanto bello, musicale, immaginifico quanto, al primo ascoltare, incomprensibile.
Questo vecchio, proprio andandolo a voler trovare nel testo, grazie a quell’aggettivo nzenziglio, potrebbe essere nato nella fantasia, dopo aver letto la descrizione del padre morente della fiaba di Cagliuso (versione partenopea de Il gatto con gli stivali, di cui Giambattista Basile scrive nel quarto racconto della seconda giornata del Cunto de li cunti).
La storia raccontata da Emma Dante in Pupo di Zucchero (di cui Ilena Ambrosio si è già occupata per PAC e che abbiamo visto in tournée di recente nelle repliche presso lo Stabile del Veneto) non è la storia di Cagliuso, ma un ricamo costruito dentro le atmosfere verbali e di caratterizzazione del fatto umano contenute nella scrittura di Basile, a cui si era già rivolta in cerca di ispirazione per La Scortecata, lavoro presentato al Festival dei due Mondi di Spoleto nel 2017.
«Lo quale, essenno a lo scotolare de li sacche de la vita… »: è veramente stupenda questa immagine della vita che sta per spegnersi, e così è davvero tutta intensa la scrittura di Basile, scorrendo le fiabe e di questo Pentamerone, fino ad arrivare a Pinto Smauto (Smalto Splendente), il terzo racconto della quinta giornata in cui la protagonista si fabbrica, impastandolo, un marito, con acqua di rose, zucchero di Palermo e mandorle ambrosine.
Il collegamento con la pratica antica e ancora presente in Sicilia di fabbricare un pupazzo di pasta per il 2 novembre, dedicato ai morti, con cui si cerca una sorta di dialogo spirituale che passa per la assunzione in corpo del dolcetto antropomorfo, è un nesso che lega il letterario al rituale arcaico.
In una intervista rilasciata al Festival D’Avignone, che ha ospitato trionfalmente lo spettacolo in questa edizione, la regista parla del rapporto problematico con la morte nella società occidentale, ponendolo a confronto con pratiche, come quella assai viva e sentita del día de los muertos in Centro America.
La morte è un tema che annoda praticamente tutta l’opera di Emma Dante. L’atto conclusivo della Trilogia della Famiglia che dal 2001 al 2004 la vide impegnata sui temi legati alla rappresentazione del vincolo familistico e di sangue, fu nel 2004 proprio Vita Mia, in cui una madre e tre figli maschi si trovano ad affrontare la morte del più piccolo, il cui il letto-bara è elemento centrale della scena. In diverse repliche, proprio a rievocare il rito del compiangere il defunto, dove tecnicamente possibile, il pubblico era disposto intorno al palcoscenico come in una camera ardente.
All’indagine sul tema familiare si è spesso sovrapposta l’emblematica lettura della vecchiaia, punto di congiunzione fra la vita e la morte, che spesso si scioglie in una danza vorticosa, in cui si rilegge tutto il vissuto, in cui si torna a riavvolgere il nastro dell’esistenza a ritroso.
Una dinamica legata all’azione danzata, in un qualche modo a una sorta di rituale dionisiaco, in cui l’esistenza senescente torna con nostalgia sulla rutilante gioventù.
Lo stesso succede ne Le sorelle Macaluso (2014), quando il marito fa vorticare la moglie ruotandola per i fianchi, gesto che poi viene ripetuto finché la coppia rimane in scena.
Ma lo stesso tema, una danza di due anziani che nel ballare lento rievocano tutta la vita, era di fatto la trama di Ballarini del 2010, piccolo atto finale de La Trilogia degli occhiali.
È come se, riavvolgendo la teatrologia della Dante, ci trovassimo davanti a una danza macabra, di cui Pupo di zucchero è l’ulteriore fotogramma: in questo spettacolo la processione finale con cui ciascuno dei protagonisti porta in spalla il proprio pupo, il proprio simulacro mortuario, appare chiarissimo il rimando a La classe morta e a tutta l’opera di Kantor.
Cesare Inzerillo realizza per lo spettacolo dieci sculture simili alle mummie dei Cappuccini esposte nelle catacombe di Palermo e che, proprio nell’atto di essere recate in scena, ricordano chiaramente la lezione del grande maestro polacco, forse davvero un tributo a una inesauribile fonte di ispirazione, che un po’ come la Dante stessa, restò fedele in tutta la sua opera alle proprie ossessioni, scandagliandole e annodando progressivamente i fili del proprio progresso esistenziale e creativo, in un tessuto dall’ordito distinguibile, riconoscibile.
Nel finale della regista siciliana, che si svolge in un quasi buio assai più intenso di quello che la foto di scena immortala, i pupi paiono quasi animarsi al tremolare della luce dei ceri che con lentezza anziana vengono accesi uno per uno in un silenzio purgatoriale, di quelle chiese barocche in cui le capuzzelle dei morti sono esposte in gran numero. Nella contemplazione di quell’impossibile tornare a vivere ma nel mistero di essere vissuti, la mente dello spettatore è costretta a un silenzioso vagare in pensieri inesplicabili, conturbanti, il cui filo è totalmente soggettivo e non replicabile. Ognuno con la propria storia, con il proprio vissuto, con il filo tessuto e il pensiero di quanto resta da tessere.
Le epifanie di scena di Pupo di zucchero sono ispirate all’opera di Basile, forse anche alla vita dello scrittore. Alle spalle del vecchio pezzente, vestite di nero, fin dall’inizio le sue tre sorelle dai nomi floreali, Rosa, Primula e Viola, a cantargli una litania: sono forse un rimando alle tre sorelle dello scrittore napoletano (in particolare Adriana), e una nipote (forse la bambola che una delle tre tiene vicina), che furono ai loro tempi cantanti di una certa fama?
In fondo è questo il percorso dell’artista, di qualunque artista: annodare le esperienze, il vissuto, gli incontri, con i temi fondanti, le ossessioni, che porta con sè.
L’incontro con Basile si annoda anche a quello del tema filiale e dall’accudimento che soprattutto negli ultimi lavori si è fatto assai presente, con la figura filiale acquisita di Misericordia, che torna in qualche modo in Pupo di Zucchero con riferimento a questa sorta di prencepe nigro, di quelli che affollano le fiabe seicenteche, ma che sono nell’immaginario partenopeo fino alla Tammurriata nera.
«Non dobitare adonca, c’haie trovato mamma e patre e t’aiutarraggio co lo sango stisso».
In un’altra interessante intervista la Dante parla della figura di sua madre, dedita, sacrificata alla famiglia a costo di soffocare ogni propria ambizione, e che la spinse ad assecondare i propri istinti e a coltivare il percorso artistico.
Sebbene la nascita non ricorra mai come elemento simbolico nel teatro della regista siciliana, la scena è sempre carica di simulacri e pupe di pezza, bambole, finanche gonfiabili, come quelle che apparvero in scena ne Le Pulle (2009), ma anche in Bestie di scena (2017).
Un universo scenico sempre affollato, una rappresentazione quasi mai solitaria della vicenda umana. Oltre ai burattini, alle bambole, ai pupi, la Dante ha sempre portato in scena una società.
Eccezion fatta per uno o forse due spettacoli (personalmente ricordo Il Festino del 2007), in scena c’è sempre stata in questi venti anni esatti, da mPalermu a Pupo di zucchero, un’umanità tragica, plurale.
Qui, ad affollare i ricordi del vecchio (interprete feticcio dell’opera della Dante oltre che compagno di vita, Carmine Maringola), ci sono le tre sorelle Nancy Trabona, Maria Sgro e Federica Greco, Sandro Maria Campagna che è Pedro, lo spasimante spagnolo, e i genitori, Stephanie Taillandier, la madre marsigliese, Giuseppe Lino, il padre disperso in mare, oltre a Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout il tuttofare Pasqualino, e Martina Caracappa e Valter Sarzi Sartori gli zii Antonio e Rita, cui spetta il compito di raccontare il confine attuale e drammatico fra passione e violenza.
Senza dubbio uno degli allestimenti più ricchi e vivi di personaggi, moltiplicati nel loro morire e rappresentarsi un po’ in croce, come in una chiesa del Purgatorio, e un po’ come burattini appesi nella casa di un mastro puparo.
Le opere della Dante sono ormai davvero costruite con profonda conoscenza della meccanica teatrale, oltre che dei propri bisogni di autorappresentazione. Si tratta per l’artista di un successo giustificato dalla maturità di un segno artistico che, caratterizzato negli anni da alcune continuità iconiche – come speriamo di aver brevemente (e anche lacunosamente) chiarito – ha saputo impastare e raccogliere stimoli sempre nuovi affiancando al già noto, al praticato, opportunità come quelle che derivavano dalla letteratura, della danza, ma anche dell’arte cinematografica, a cui la regista si è prestata in diverse occasioni.
Sempre più la scena ricalca il vuoto dello spazio teatrale, porta lo spettatore a dover immaginare uno spazio quasi inconscio.
Certo, in Pupo di zucchero la parlata è un napoletano anche abbastanza stretto, ma si capisce subito che si stanno accarezzando topoi umani che potrebbe essere dappertutto: un uomo, alle sue spalle l’incarnazione della memoria delle figure della sua famiglia, che pian piano si allarga dalle sorelle ai genitori, in un grande piano sequenza che, invece che attraversare lo spazio, attraversa il tempo; uno dei miracoli che solo il teatro può permettere.
La costruzione drammaturgica che Emma Dante immagina nelle sue più recenti creazioni è una sorta di gemmazione del ricordo dal ricordo, in cui man mano che dalla mente vengono fuori i protagonisti della personale vicenda umana, ciascuno dei protagonisti delle gocce di memoria si aggrappa a sua volta a un fatto, a un gesto emblematico, a qualcosa che lo ha fissato nel per sempre, nell’album che viene porto allo spettatore da sfogliare.
Man mano che le vicende personali si susseguono e si incastrano l’una nell’altra, in Pupo di zucchero, come pure nel precedente Misericordia – cui è evidentemente legato proprio per meccanica della costruzione spettacolare – arrivano alcuni scarni elementi di scena, portati dagli attori da dietro le quinte, per raggiungere piccole ambientazioni: un tavolo, delle sedie, un quadro in teoria appeso al muro, in pratica retto da uno degli attori, quasi a volerci dire che è sempre chi interpreta che definisce lo spazio del teatro, che l’oggetto si esaurisce nell’istante in cui esplode il suo potenziale evocativo, senza dover consumare la fantasia dello spettatore fissandosi in un luogo specifico.
Queste ultime due opere della Dante sono creazioni ispirate, che arrivano molto nitidamente a portare emotività in platea e in cui lo spettatore «sentenno st’ammaro cunto ietta lagreme senza cunto e la compassione che trase pe le pertose de l’arecchie sbafa ’n sospire pe lo spiraglio de la vocca».
PUPO DI ZUCCHERO
La festa dei morti
liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile
testo e regia Emma Dante
con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio)
costumi Emma Dante
sculture Cesare Inzerillo
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Italia Carroccio
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
produzione Sud Costa Occidentale
in coproduzione con Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Scène National Châteauvallon-Liberté / ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée Théâtre National de Marseille / Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria
e con il sostegno dei Fondi di integrazione per i giovani artisti teatrali della DRAC PACA e della Regione Sud