IDA BARBALINARDO* | Un sogno poetico metropolitano: così il Teatro dei Borgia, compagnia barlettana fondata da Gianpiero Alighiero Borgia ed Elena Cotugno, definisce La città dei miti, trilogia nata dall’incontro tra i testi di Euripide e le storie che popolano le strade delle città contemporanee.
Eracle l’invisibile (Christian Di Domenico), Filottete dimenticato (Daniele Nuccetelli) e Medea per strada (Elena Cotugno) sono eroi del basso, archetipi della modernità che, attraverso un intenso lavoro sul campo caratterizzato dall’incontro con figure e realtà ai margini, vivificano la mitologia classica dando vita a veri e propri miti contemporanei.
In seguito alla messinscena della trilogia, organizzata a dicembre dal Teatro Koreja negli spazi della Mensa Santa Rosa di Lecce, abbiamo intervistato Gianpiero Borgia:

Da dove nasce l’idea di lavorare proprio su queste tre figure mitiche e di collegarle l’una all’altra in un unico lavoro?

L’idea di Medea, in primis, è nata a cavallo tra 2015 e 2016, in un periodo caratterizzato da forti attriti all’interno del nostro Paese per l’accoglienza degli stranieri, periodo durante il quale ci è sembrato doveroso affrontare il tema dalla prospettiva giusta. Abbiamo quindi individuato da una parte – nel caso delle vittime della tratta delle donne che cadono in schiavitù sessuale – un emblema attraverso il quale parlare nei termini corretti del rapporto tra la comunità italiana e quella straniera, e dall’altra ci è parso che si dovesse utilizzare il mito, le parole di Euripide per ridare un ruolo al teatro nella polis, cosa nella quale crediamo profondamente: se il teatro si occupa di polis si ritaglia uno spazio in essa, se il teatro si occupa di se stesso, viene emarginato. Così è nata Medea e da qui è discesa una visione, l’idea di collocare un tentativo di teatro d’arte in una dimensione socio-politica attiva sia nella fase di creazione degli spettacoli sia in quella di incontro con il pubblico.
Per questo abbiamo fatto un ragionamento sui bisogni più contraddittori della nostra società, che francamente sono tanti. A volte ho il timore che questi siano solo i primi tra i problemi da affrontare e che il progetto possa non avere fine.

Sicuramente è un progetto che potrebbe alimentarsi all’infinito.

Sì, c’è la parte bella di questa possibilità: quella della relazione con i classici, studiando i quali si apre un mondo di relazione con l’essere umano e il suo profondo. Studiare i classici è una disciplina, un allenamento, è una pratica quasi religiosa a seguito della quale ci si allena a vedere il mondo attraverso uno spettro di verticalità e non di superficialità. D’altra parte, quelli trattati sono temi che ci toccano e rispetto ai quali c’è un altro discorso da fare: quello della responsabilità dell’artista nel momento storico che viviamo, in cui sembra che chi si dovrebbe prendere le responsabilità della polis abbia un po’ la sindrome di Peter Pan. E allora tocca a noi artisti il ruolo del Grillo parlante.

I vostri Eracle, Filottete e Medea sono accomunati da una condizione di emarginazione e solitudine causata, in ognuno, da contingenze differenti. Secondo te come siamo diventati una società che condanna il minimo errore o che respinge, non sapendole gestire, le fragilità altrui? 

Volendo andare per gradi, ti direi che noi ci occupiamo di teatro e di tragedia, per cui avevamo bisogno innanzitutto di individuare quelle che chiamiamo “icone urbane contemporanee”, figure che dovevano vivere condizioni sufficientemente estreme e nelle quali la tragedia è possibile. Quindi, diversamente dal racconto classico greco o da quello neoclassico di matrice hollywoodiana, non abbiamo scelto eroi dell’alto ma eroi dei margini, delle periferie: l’eroe è sempre un espulso dalla cerchia dei civili, i nostri sono stati espulsi verso i lati e non verso l’Olimpo o verso Krypton.
Con i nostri tre lavori abbiamo iniziato a dedicare primi piani ad alcuni di questi reietti, perchè in loro è racchiusa la dimensione tragica dell’esistere che volevamo raccontare e affrontare artisticamente.
La domanda sociologica che tu poni è molto ampia: purtroppo quello che sta avvenendo – ne parliamo, seppur in chiave metaforica, in tutti e tre gli spettacoli – è che viviamo nel pieno dominio dell’ideologia neoliberista e ciò che non rientra nella dimensione mercantile, economica dell’esistere non ha spazio. La nostra è diventata la società della prestazione: se non sei pienamente performante e produttivo nella tua veste di lavoratore e consumatore vieni espulso.

Ritieni quindi che queste dinamiche non siano sempre esistite? Che siano frutto della contemporaneità?

La sensazione che ho è che il meccanismo sia diventato subdolo. Fino al secolo scorso lo scontro era lampante, quella del conflitto sociale era una dimensione esplicita nella quale gli sfruttatori stavano da una parte e gli sfruttati dall’altra. Adesso non è così: non sai se ti devi guardare dal precario che è alle tue spalle o da chi ti precede. I traumi si nascondono, si rimuovono, si mettono appunto in periferia per ignorarli, non affrontarli.
Un’altra cosa che è avvenuta è che ci siamo tutti quanti individualizzati, per cui non solidarizziamo più con l’ultimo perchè siamo troppo occupati a preservare noi stessi da un’eventuale emarginazione.

Per quanto riguarda la parte prettamente formale del lavoro artistico, dietro alla scelta di costruire quest’ultimo come uno spettacolo itinerante ci sono delle ragioni specifiche? Se sì, quali? 

Tante sono le riflessioni che ci hanno spinto verso questo tipo di scelta: la prima è ancora una volta il paragone con il classico. La tragedia greca, quando è nata, metteva insieme aspetti mitologici (quindi sia politici che morali, religiosi, collettivi), era una via di mezzo tra Woodstock, una partita di calcio e un comizio politico e toccava una fetta della popolazione percentualmente più ampia di quella che oggi riesce a raggiungere uno spettacolo teatrale. Per cui il primo punto che ci siamo posti come obiettivo è stato riuscire a costruire nel presente una dimensione esperienziale che, sia pur compendiata in un più breve lasso di tempo e destinata a un numero esiguo di spettatori, avesse un’intensità quantomeno analoga a quella della tragedia tradizionale. L’esigenza è non ridurre il tutto al semplice consumo di uno spettacolo teatrale.
In secondo luogo, la preparazione degli spettacoli è stata un’attività talmente intensa per noi, fatta di incontri, interviste, azioni di volontariato, lavoro sul campo con gli operatori e gli utenti, che si è sempre posto il problema di come, nel breve tempo dell’incontro con lo spettatore, restituire qualcosa che fosse, non dico altrettanto intensa rispetto a quello che abbiamo vissuto noi, ma che andasse almeno nella stessa direzione.
Parallelamente a ciò, c’è una richiesta esplicita che facciamo a chi ci viene a vedere: gli chiediamo di essere uno spettatore militante, un cittadino attivo, di vivere la messinscena come un momento di esperienza comunitaria, di fare, quindi, cose che non fa quando va tradizionalmente a teatro e si siede dinanzi a un sipario. Da qui la scelta di raggiungere luoghi in cui probabilmente non ha mai messo piede in vita sua, di spostarsi, di entrare in zone del disagio.
Infine è essenziale per noi restituire qualcosa nei luoghi in cui andiamo a lavorare: questi, loro malgrado, diventano spesso “ghetti” perchè di base vengono frequentati soltanto da utenti e operatori. Intervenire in questi posti, raccontarli, rompe la loro routine, permette di conferire un senso più ampio all’operato di chi quotidianamente li abita.

I tre testi che portate in scena hanno alcuni punti in comune: tra questi, il fatto di partire tutti con un tono scanzonato, simpatico, ironico e poi giungere progressivamente al dramma. Nel corso del processo di scrittura, oltre ai riferimenti dei miti e a quelli della contemporaneità, ci sono state altre figure che vi hanno ispirato? 

La sezione ludica che ognuno dei lavori ha nella parte iniziale ha a che fare con il registrare il corretto rapporto con lo spettatore, una relazione nella quale si percepisce che il gioco che stiamo facendo è lo stesso. È una sezione strutturale, un momento funzionale all’incontro con il pubblico presente in tutti i miei lavori.
C’è una frase molto bella che secondo me racchiude il senso dello spettacolo: “Se non è una bella giornata di primavera, non può esserci tragedia”. L’incipit dei nostri testi è costruito così, per dare vita a una bella giornata di primavera in assenza della quale non c’è tragedia ma melodramma o fotoromanzo.
Per quel che riguarda la costruzione delle drammaturgie bisogna dire che in genere ho delle intuizioni iniziali che mi portano a immaginare il personaggio, la situazione, le analogie con la tragedia greca di partenza. Successivamente, con Fabrizio Sinisi costruiamo una trama abbastanza sinottica, la analizziamo scena per scena e cerchiamo di traslare la mia intuizione lungo un racconto assai simile a quello dell’autore classico cui ci ispiriamo. Dopodichè il lavoro se lo prende Fabrizio che scrive una trama più ampia di quella che verrà poi recitata dagli attori, i quali, nel frattempo, fanno con noi un percorso di ricerca sul campo, incrociano vite e sostituiscono frammenti della scrittura di Fabrizio con furti alla realtà. Diventa una specie di partita di ping-pong che dura sempre, è tutt’ora in corso: ad ogni nuova tappa corrispondono nuove azioni sul campo, nuove basi di ispirazione e furti possibili.
La nostra è una creazione d’ensemble nella quale il regista è un agente provocatore non un piccolo dittatore: costruisce il campo da gioco, porta il pallone e la partita sarà determinata da come sanno giocare gli altri. Credo che la figura del regista-guru, del maestro sia una tendenza novecentesca tanto retorica quanto superata.
A me interessa quando un attore fa una cosa per me imprevedibile e mi porta dove non immaginavo di andare, m’interessa essere portato fuori da me a vedere cosa c’è. Penso che il teatro sia un territorio d’incontro: se l’attore dovesse fare esattamente quello che dico io, il mio sarebbe un atto di prepotenza, un esercizio narcisistico in cui l’altro serve come mio avatar.

In conclusione, quale impatto può avere secondo te il teatro attraverso la riproduzione di tematiche che caratterizzano profondamente la contemporaneità?

Il teatro si deve riprendere un posto nella polis. Il suo ruolo specifico è quello di occuparsi dell’umano in termini verticali e non superficiali: credo che questo, oggi, nell’era dei social e del consumismo, sia un bisogno latente ma in realtà enormemente diffuso. Se noi teatranti cadiamo nella trappola di fare quello che fanno molto meglio altri attori dell’industria dello spettacolo dal vivo e dell’intrattenimento andiamo fuori strada, non facciamo quello per cui siamo nati. Se ci collochiamo in uno spazio d’inseguimento, siamo perdenti. Bisogna accettare che la nostra situazione sia più complessa, fatta di numeri esigui e di approfondimento in un momento in cui il mondo rifiuta l’approfondimento. Accettare che questo sia il nostro ruolo nella polis: se lo facciamo, il popolo tornerà. Se ci mettiamo a imitare male quello che altri fanno meglio di noi, no.
Sulle nostre spalle grava una responsabilità che non sta nell’inseguire i bisogni, o presunti tali, del pubblico o i dettami dei vari bandi, ma nell’occuparci della materia specifica del teatro. Forse è un’era nella quale è meno di moda che in altre, ma quello che sfugge ai più è che il teatro è ancora un bambino, si fa da 3000 anni e si farà ancora per chissà quanto altro tempo, Facebook è già vecchio, ha la vita dei cani. Bisogna avere allora la tenacia e il coraggio di aspettare che il tempo svolga il suo ruolo e occuparci del nostro.

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* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica