ELENA SCOLARI | La baleniera Pequod salpa a pag. 138 dell’edizione Adelphi di Moby Dick (copertina di Roberto Abbiati, autore anche di una versione teatrale speedy del romanzo: Una tazza di mare in tempesta). Queste pagine raccontano Nantucket, il porto, la locanda, il viavai di marinai che da tutto il mondo arrivano in quell’isola del Massachussets per imbarcarsi, spesso per anni, a caccia di cetacei solcando gli oceani. Si entra nella storia di Herman Melville in maniera tangenziale, si potrebbe dire, molto prima che si consumi la battaglia e molto prima che i “dannati” protagonisti (Achab quanto Moby Dick) si facciano vedere.
E l’approccio indiretto è anche quello che Orson Welles sceglie per affrontare il romanzo, nella sua sfida a farne una trasposizione teatrale; conscio che fronteggiare un capolavoro con pochi fatti e moltissima psicologia sia un’impresa azzardata, trova un modo per mettere un diaframma tra l’opera e la sua rappresentazione: una compagnia teatrale è al lavoro per mettere in scena Re Lear di Shakespeare ma poi cambia rotta e si dirige verso Moby Dick. Come Achab è ossessionato dal capodoglio così Welles lo è da Melville e nel 1956 realizza a Londra il suo Moby Dick – Rehearsed, definendolo il suo “miglior momento teatrale”.
Lo spettacolo ha la sua prima versione italiana nel lavoro di Elio De Capitani Moby Dick alla prova (coprodotto con il Teatro Stabile di Torino) – in scena al Teatro Elfo Puccini fino al 6 febbraio – che trascina gli spettatori a bordo della nave, facendo loro sottoscrivere lo stesso contratto che ha firmato Ismael, peccato che su quell’accordo non si faccia cenno a compravendite dell’anima…
La compagnia è radunata, aspetta il regista ed esprime dubbi sul poter trarre uno spettacolo da un testo come quello di Melville (qui nella buona traduzione di Cristina Viti). Il regista arriva (De Capitani stesso), prova una scena del Re Lear con Cordelia/Giulia Viana e le dà varie indicazioni, di cui alcune molto belle:
“Meno lacrime! Meno lacrime! Deve piangere il pubblico, non tu!”;
“Quando il teatro è teatro è poesia, non c’è bisogno di mettercela”.
Poche parole shakespeariane ancora e poi lo sfortunato padre di Reagan, Goneril e Cordelia rimane a terra (se non per qualche riferimento che solo i più freschi di lettura di Lear avvertiranno). Dopo il sermone di padre Mapple (ex marinaio e sempre De Capitani) che nella cappella di Nantucket arringa i suoi “compagni di bordo” su Giona e la tempesta che ha affrontato (anche nel Re Lear c’è una tempesta, forse della mente) parte la navigazione in acque scure, tutti pronti per salire su quella “nobile nave, ma una nave malinconica. Tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia”.
Ma l’equipaggio? L’equipaggio è importantissimo, perché il Pequod è una metafora del mondo: lì sopra ci sono uomini di ogni continente, di ogni etnia, di ogni cultura e di ogni carattere. Ismael (Angelo Di Genio), narratore della vicenda e parte della ciurma, ce li presenta brevemente: citiamo il cauto e intelligente Starbuck, primo degli ufficiali in seconda, cui Marco Bonadei dà un segno di distinzione anche nel fisico, è più alto degli altri, meno massiccio, ha sempre un’espressione impensierita, è come se presentisse qualcosa che gli altri non percepiscono, lui ha capito meglio e prima di tutti la natura vendicativa e nefasta di quella spedizione: “Io sono qui perché devo aiutarti a raggiungere la tua fine”.
Anche Ismael è un collegamento tra la vicenda e noi: la racconta e ne è esso stesso parte, Di Genio infatti sta spesso su un piano scenico un po’ separato dagli altri (a volte anche un po’ smarrito), è dentro ma è anche l’unico che sa come andrà a finire.
E un piano distinto è quello del proscenio dove un microfono ad asta raccoglie alcune parti.
I marinai sono tutti uomini ma – è nel testo di Welles – in mancanza di un ragazzino nero quale è Pip, lo interpreterà una giovane donna, qui ancora Giulia Viana, che si trasforma in un fool con tamburello, una via di mezzo tra un giullare che intrattiene con le sue canzoni e una voce dell’inconscio che pronuncia presagi in forma di visioni; poi ci sono gli altri due ufficiali: lo spensierato Stubb (Enzo Curcurù, la sua è una presenza sorridente, sicura, mai tentennante) e Flask (Michele Costabile), forte, un po’ rozzo e nemico giurato di ogni balena; e il carpentiere che modella nuove gambe di legno per Achab, Vincenzo Zampa che duetta con Pip in una bella scena canterina, poetica e di grande sintonia tra i due.
Ci sono anche Tashtego (Alessandro Lussiana), Daggoo e Quiqueg (quest’ultimo purtroppo quasi assente qui e nella riduzione di Welles), uomini e guerrieri fantastici, un indiano d’America, un africano e un uomo dei mari del sud, molto speciale.
E c’è un altro personaggio, il cui ruolo è anche “di servizio” perchè fa da cerniera tra i fatti e la messinscena: Cristina Crippa è il direttore di scena dello spettacolo che si sta provando, interviene a segnare i cambi scena, a descrivere le situazioni. Secondo le indicazioni di Welles e del nostro capocomico niente di “marinaresco” deve essere sul palco ma tutto deve essere immaginato dal pubblico: come nell’Enrico V incita la platea a guardare allo spazio del palco come a uno spazio simbolico che noi dobbiamo riempire con la nostra idea del Pequod. Infatti pochi sono gli arredi: tre alti praticabili, una sedia da barbiere rialzata che è trono e cassero, alcuni tavoli anatomici di metallo su rotelle, un grande telo/vela bianco sul fondo.
La traversata è cominciata ed è puntellata da molti, riuscitissimi, momenti “sonori” (curati da Gianfranco Turco), una delle idee più convincenti e più aderenti all’atmosfera navale: cori di canti popolari in inglese diretti a vista dal M° Mario Arcari, e niente più di una ciurma che canta ci porta per mare con loro, con doppia razione di rum; molti suoni di navigazione: ritmi battuti sul metallo dei tavoli, colpi secchi e legnosi di bastoni per tenere il ritmo. Il Maestro presente in scena (e quindi sulla nave) raddoppia l’idea che l’equipaggio sia “guidato”, come da uno spirito, il Capitano Achab ha rapito le menti dei marinai per il suo scopo e anche il direttore musicale indica che queste persone sono mosse da un’energia invisibile, che attraversa tutti e li porta verso lo scontro con il capodoglio.
E forse è questo anche il senso delle maschere che, appena salpati, tutti indossano (di Marco Bonadei). Maschere grigie, aderenti, che nascondono le espressioni e il movimento delle labbra: ancora un segno della temporanea cancellazione di sé al servizio di un unico obiettivo. Non rimane però leggibile nel corso dello spettacolo il perché queste maschere vengano poi messe e tolte più volte. I costumi (di Ferdinando Bruni) sono nella stessa sfumatura: soprattutto grigi e azzurri sbiaditi. Così come le luci di Michele Ceglia, fredde e marine.
Elio De Capitani è un Achab che sa passare dall’aggressiva volontà di convincere e piegare il Pequod e i suoi abitanti all’appagamento della sua ossessione, all’essere attonito, muto, immobile, di fronte al nemico finalmente ritrovato: il capodoglio bianco gli ha già tranciato la gamba sotto il ginocchio anni prima e il Capitano ha giurato di scovarlo, fosse l’ultima cosa che farà. E infatti.
Non si può svelare la trovata (semplice ma di grande effetto) con cui si arriva a vedere l’enorme mammifero bianco ma si può invece dire della serrata scena di caccia finale: l’equipaggio è schierato, di fronte al mare della platea, i marinai colpiscono con i palmi i piani di metallo dei tavoli, inclinandoli a seconda delle onde, un frastuono crescente dominato da Achab al centro, alto sul cassero, ostinato e con lo sguardo fisso davanti a sé. Ismael è steso sul proscenio e si divide coralmente con gli altri le descrizioni delle azioni: gli ordini ai fiocinatori, i comandi alle vedette sulla coffa di trinchetto, i tremiti delle lance e la mascella gigante del cetaceo. Moby Dick compare ma poi s’inabissa di nuovo, riemergerà (entro un’ora) ma tutti devono aguzzare la vista e urlare con quanto fiato in gola quando lo vedranno risalire. “Soffia! Laggiù soffia!” è il grido di battaglia.
Ma è giusto avercela mortalmente con una povera bestia? Moby Dick è (anche) la Natura e l’odio di Achab è il complesso di inferiorità dell’Uomo che non la può dominare.
Questo sarebbe stato chiarissimo anche senza la proiezione di un video che mostra un branco di capodogli femmine con i loro cuccioli. Peccato perché si tratta una spiegazione superflua e che sottrae libertà inventiva a chi guarda.
Moby Dick alla prova è un atto d’immaginazione, nello spettacolo la tensione non è sempre uniforme (il primo atto è del resto quello dell’attesa), lo spettatore deve aderire al suggerimento iniziale e nutrire i propri pensieri perché il Pequod esista.
È solo così che potremo salpare.
MOBY DICK ALLA PROVA
di Orson Welles
adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni
maschere Marco Bonadei
musiche dal vivo Mario Arcari e Francesca Breschi
luci Michele Cegli
suono Gianfranco Turco
con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa
assistente regia Alessandro Frigerio
assistente scene Roberta Monopoli
assistente costumi Elena Rossi
una coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Teatro Elfo Puccini, Milano – 13 gennaio 2022