RITA CIRRINCIONE | Dal fondo del programma per le celebrazioni dei dieci anni dell’Associazione Babel – in parte annullato per l’ennesimo stop causato dalla nuova impennata della pandemia – recuperiamo Element-Z, il primo degli spettacoli in calendario.
Una compagnia, uno staff composto da lavoratori dello spettacolo e della cultura, da artisti, tecnici, producer e organizzatori, una crew, come ama definirsi, in questi anni Babel – con il coordinamento di Giuseppe Provinzano, presidente dell’Associazione e Direttore Artistico – ha costituito un importante punto di riferimento per la scena contemporanea indipendente siciliana e ha arricchito il panorama culturale del territorio ottenendo importanti riconoscimenti a livello nazionale.
Dalla creazione di Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa, al Progetto Amuní (laboratorio per la formazione ai mestieri dello spettacolo dal vivo rivolto a richiedenti asilo, rifugiati e italiani di seconda generazione, insignito del premio MigrArti del MIBACT) e al Mercurio Festival, rassegna multidisciplinare giunto ormai alla terza edizione, senza dimenticare le numerose residenze artistiche ospitate anche nel periodo di chiusura dei teatri: ecco i progetti artistici a cui Babel Crew in questi dieci anni ha dato vita.
Arrivato allo Spazio Franco dopo il debutto al Santarcangelo Festival e al Romaeuropa Festival, ELEMENT-Z del Progetto Amunì esplora la Generazione Z, la generazione nata nell’era digitale, quella di chi non ha conosciuto il mondo senza Internet, la generazione ormai ontologicamente incapace di distinguere il reale dal virtuale.
14 performer originari di 12 paesi diversi, 14 giovani di questo tempo o forse senza tempo, figure archetipiche di un immaginario mitologico e letterario, 14 corpi e 14 smartphone (anzi un tutt’uno in cui lo smartphone non è un dispositivo accessorio o una protesi ma parte integrante di un corpo bionico, vero e proprio corpo aumentato): con i linguaggi del teatro-danza e dell’improvvisazione musicale la Compagnia Multietnica del Progetto Amunì mette in scena uno spettacolo corale di situazioni performative e di creazioni coreografiche di cui gli stessi performer sono co-autori in una composizione e ricomposizione scenica in continuo divenire.
Un andare affaccendato e ritmato interrotto da stop in cui a gruppetti assortiti ci si mette in posizione per un selfie: espressione felice, posa creativa, mano ben in vista con indice e medio a formare la V, sguardo finalmente alzato verso quell’entità luminosa a cui rivolgere il più raggiante dei sorrisi. Vittoria! Poi di nuovo testa china, espressione grave, evitamento dell’altro fino al selfie successivo. E così per un po’ di tempo (forse troppo), con piccole varianti, il rituale va avanti: tutti a turno vogliono il proprio selfie – momento di riscatto, attestato di esistenza in vita e di riconoscimento sociale – anche quando a fare da sfondo come un trofeo è un corpo stramazzato a terra nell’indifferenza generale.
La scena è buia, a illuminarla solo gli schermi degli smartphone rivolti verso i volti dei performer e il riverbero abbacinante del bianco dei loro vestiti oppure rivolti verso il pubblico, specchi bifronti per guardare e per guardarsi, punti luminosi per disegnare una lettera o un emoticon, brevi messaggi lanciati nell’oscurità.
Quando arriva il momento del Logos, non è un logos chiarificatore e ordinatore dell’esperienza: in una babele di lingue, oscuri frammenti di storie, pezzi di vita compongono una narrazione corale dove il senso globale passa non tanto da una singola parola colta qua e là o dalla decodifica di un incomprensibile esperanto, ma attraverso il linguaggio dei corpi fatto di danze, di brevi momenti coreografici, di movimenti scenici di aggregazione e dispersione; o mediante suoni, ritmi e cori che evocano gli spiritual afro-americani (efficaci le musiche dal vivo di Sergio Beercock) in un musical tribale sempre più urlato man mano che comunicare diventa difficile e le parole si fanno colpi inferti all’interlocutore per poi diventare un’invocazione, quasi una preghiera.
Sono racconti di migrazioni, di chi ha un passato da cui scappare e un futuro che non riesce neanche a pensare, di chi viene dal nulla e sogna di avere tutto in un rito psicodrammatico collettivo per elaborare il trauma di sradicamenti, marginalità e solitudini.
In epilogo – quasi un’appendice aggiuntiva – una sorta di litania in siciliano che elenca gli innumerevoli e annosi problemi di una Palermo sempre più nell’abbandono e nel degrado e che riporta il focus su una realtà vicina, sembra annullare quel sentore di universalità fino a quel momento percepito.
Pur soffrendo di una inevitabile oscurità e di una certa ripetitività (per sua natura lo spettacolo in alcuni momenti ben si presterebbe a una maggiore stringatezza e a un ritmo più serrato), Element-Z è un’opera potente e attuale che affronta molti dei temi cruciali della nostra contemporaneità e delle sue contraddizioni. Grazie a una direzione attenta, presenta una struttura organica e una buona tenuta drammaturgica, cosa non facile per una produzione collettiva e multiculturale.
ELEMENT-Z
drammaturgia di gruppo diretta da Giuseppe Provinzano
musiche Sergio Beercock
coreografie Simona Argentieri
luci Gabriele Gugliara
aiuto regia Rossella Guarneri
actor coach Luigi Maria Rausa
organizzazione Diana Turdo
foto Nayeli Salas Cisneros
video Giuseppe Galante
con Naomi Adeniji, Hamissou Alidou, Ibrahim Ba, Priyanka Datta, Bandiougou Diawara, Alexsia Edman, Julia Jedlikowska, Hajar Lahmam, Jean Mathieu Marie, Junaky Md Abdur, Bob Murana, Andrea Sapienza, Alfred Sobo Blay, Sheriff Sonko
con la partecipazione di Sonia Tazeghdanti
Spazio Franco, Palermo
12 dicembre 2021