ELENA SCOLARI | Italiani smemorati, italiani che non hanno fatto i conti con la propria storia, italiani poeti e navigatori. Italiani nostalgici, dei treni in orario, della pensione e della bonifica dell’Agro Pontino. Tutto vero. M come Mussolini, M come Matteotti, M come Memoria. Lo spettacolo M – il figlio del secolo, tratto dal best seller di Antonio Scurati (ed. Bompiani) e creazione di Massimo Popolizio – coproduzione del Piccolo Teatro di Milano con il Teatro di Roma – può riparare a una parte di dimenticanze e ignoranze storiche ma può soprattutto mostrare come rendere teatrale la Storia senza diventare un bigio bigino riassuntivo.
La struttura: diciotto attori, tre ore di durata per trentuno quadri, ognuno con un suo titolo, che si susseguono con ottimo ritmo e la giusta dose di semplificazione.
M è un grande lavoro di squadra: regia, costumi, scenografie, selezione di video e immagini evidenziano un’uniformità e uno stile netti, decisi, frutto di un’idea comune e che concorrono, a pari qualità, a un risultato omogeneo e molto ben costruito.
Come nel ponderoso libro, M – il figlio del secolo racconta gli anni dal 1919 al 1924 e cioè l’irresistibile ascesa di Benito Mussolini dalla fondazione dei Fasci di combattimento – dopo la cacciata del futuro duce dal Partito Socialista – fino all’omicidio di Giacomo Matteotti; passando per la nascita del Partito Fascista Nazionale nel 1921 e per la marcia su Roma nel 1922.
Dal punto di vista dell’analisi storica si rimane, ancora, increduli di fronte a come un manipolo di gente raccogliticcia, inizialmente esigua anche numericamente, abbia potuto, nell’obnubilazione generale, arrivare in un tempo brevissimo a essere così folto, minaccioso e potente tanto da guidare un intero paese, come messo sotto ipnosi.
La regia di Popolizio privilegia il punto di vista teatrale, e qui sta il maggior pregio del lavoro: l’adattamento (cui ha collaborato brillantemente Lorenzo Pavolini) scrive una linea drammaturgica di scena che rimane sempre la bussola dello spettacolo; i capitoli sono volutamente snelli (giustamente, se si vogliono i dettagli c’è il romanzo in libreria) e la mano del regista conduce con sicurezza una rappresentazione che rivendica la sua natura orgogliosamente teatrale.
Alcuni aspetti emergono con evidenza, primo fra tutti la scelta di un Mussolini doppio: il duce è perlopiù interpretato da Tommaso Ragno, libero da qualunque cliché mimetico, asciutto, personale, mai aderente all’iconografia mussoliniana cui siamo abituati. Nessuna posa virile, mai le braccia piegate sui fianchi e la mascella prominente, e nemmeno la divisa. Ragno è magro e non massiccio, in elegante abito grigio, capelli bianchi e figura tutt’altro che tozza. Massimo Popolizio sceglie di dare corpo alla faccia più istrionica di Mussolini, quella, appunto, più teatrale. È un diabolico commediante. Compare in un costume che ricorda Petrolini, ghette e guanti bianchi, bastone col pomello, spesso a passo di danza. Popolizio è il Mussolini “teatrante”, la star da varietà, quello che si reca a Firenze per incontrare il suo pubblico in un teatro e si presenta in tuta da aviatore macchiata di grasso. Sta recitando un personaggio e riuscirà a stregare gli astanti.
Citiamo due tra le scene più significative, storicamente: il quadro dedicato agli Arditi, un corpo speciale del Regio Esercito creato nel 1917, impiegato durante la prima guerra mondiale e i cui reduci confluiranno nel Fascio impegnandosi negli atti di squadrismo e nelle prime spedizioni punitive contro le organizzazioni politiche e sindacali di sinistra e contro singoli avversari politici, mostra quanto la matrice originaria del fascismo prenda le mosse da uomini violenti, spregiudicati, allenati alle nefandezze più disumane. Poi il rapimento di Matteotti e le sevizie subite prima dell’uccisione, descritte con un cinismo crudo e compiaciuto, rappresentano invece il feroce eccesso di zelo di alcuni camerati che presero un’iniziativa probabilmente non ordinata da Mussolini, che infatti la disapprova ma decide poi di cavalcarla per impaurire gli oppositori.
La regia è manifestamente debitrice di Luca Ronconi e del suo stile, buono l’occhio al complesso della scena, movimenti e posizioni degli attori sempre curati, attenzione ai diversi piani di profondità. Marco Rossi firma le scene (sue furono anche quelle dell’ultimo lavoro di Ronconi, Lehman Trilogy) e si riconosce una cifra pulita, fatta di pochi elementi: grandi tribune mobili e scure che diventano scalinate o gradinate del parlamento, tavoli semplici, una mezza automobile. Frammenti sufficienti a creare il contesto. I costumi di Gianluca Sbicca sono d’epoca e belli, bastano a portarci in quegli anni senza alcun fronzolo. Così come le luci di Luigi Biondi, essenziali. Non così organiche sono invece le musiche, a volte non in armonia estetica con l’azione scenica.
(Sugli applausi risuona Bandiera bianca di Battiato).
Questa semplicità produce due effetti, da una parte la tipizzazione dei personaggi, che qua e là sfiorano la macchietta; si può dire che siano sì la persona (D’Annunzio, Balbo, la Contessa Mattavelli) ma anche l’emblema delle caratteristiche che queste persone incarnano, viste ex post: l’eccentricità, la meschinità mercantile, il superomismo…; e dall’altra la grande responsabilità regalata agli attori di occupare una scena spoglia con la forza del proprio carattere interpretativo.
La numerosa compagine è equilibrata (alcuni degli uomini non sono impermeabili all’impronta popoliziana), e tra i personaggi principali è giusto sottolineare le interpretazioni di Sandra Toffolatti, appassionata e affascinante nel ruolo di Margherita Sarfatti, la colta critica d’arte che introdurrà Mussolini nei salotti buoni della borghesia, che lo vestirà come si deve e lo “dirozzerà”; Raffaele Esposito, un accorato, sincero e retto Giacomo Matteotti; Francesca Osso, convincente e fresca Velia Titta, innamorata moglie di Matteotti.
A Riccardo Bocci sono riservati la parte di Gabriele D’Annunzio, fortemente connotato (forse troppo) nei suoi lati più freak, ma anche due ruoli minori di dubbia utilità: una cartomante e una donna delle pulizie che attraversano il palco senza che se ne intravveda il bisogno.
Di grande effetto estetico, anche per le ragguardevoli dimensioni, le immagini proiettate sullo schermo gigante a fondo scena che costituiscono gli sfondi per ognuno dei quadri, calando l’azione nei rispettivi ambienti e contesti.
L’inizio e la fine dello spettacolo chiudono un cerchio narrativo composto da un filmato dell’Istituto Luce in cui bambini piccoli fascisti poco più che in fasce o balilla mostrano il braccino teso mentre la voce fuori campo di Popolizio sussurra: «Guardali, non capiscono quello che gli sto facendo».
Lo spettacolo si apre e si chiude con l’assunzione di colpa di Mussolini dichiarata al Parlamento nel gennaio 1925: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».
È anche questa una prova di forza e di coraggio, l’uomo forte si carica il peso del potere sulle spalle larghe e sbeffeggia chi lo accusa. La passerella dei comprimari è affollata: i futuristi e lo slancio verso il progresso, le tante donne affascinate da una figura magnetica, il vate e l’impresa di Fiume, ma anche le tante persone lucide e lungimiranti rimaste inascoltate. La storia di M è la storia di un paese intero, ammattito per un mattatore.
M – Il figlio del secolo
uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia Lorenzo Pavolini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
video Riccardo Frati
suono Sandro Saviozzi
con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Di Renzi, Raffaele Esposito, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà
Piccolo Teatro Strehler – Milano
5 febbraio 2022