RENZO FRANCABANDERA | Governare e farsi governare dal teatro, tradire ed essere tradito nel proprio fare arte, e osservare tutto nel suo rivelarsi in scena.
Il percorso di Michele Sinisi come regista, nell’ultimo decennio, ha avuto una serie di sperimentazioni via via più intense, grazie anche e soprattutto alla grande libertà concessagli dalla committenza che in questi anni ha maggiormente affiancato il suo progredire creativo, quella di Elsinor Centro di Produzione Teatrale.
Una recente coproduzione con il Metastasio di Prato ha dato modo all’artista pugliese (grazie ad una drammaturgia inedita firmata da Sinisi stesso e da Francesco Maria Asselta) di confrontarsi con un classico del cinema italiano, La grande abbuffata, film potente e controverso di Marco Ferreri, le cui atmosfere psicotiche raccontano di quattro uomini che programmano la propria morte al termine di un’orgia di cibo e sesso.
La pellicola, con il racconto degli eccessi della società borghese occidentale, è diventata allegoria di una società votata all’abbuffata indiscriminata ed è diventata occasione – nel suo ribadire altamente teatrale nato nel bel mezzo delle restrizioni pandemiche – per una riflessione sull’overdose di informazioni, prodotti, opinioni, pornografie di ogni genere che trovano casa ideale nella nostra realtà divorata dal virtuale, ancor più nei mesi in cui tutto era streaming e in cui davvero si è temuto che nulla potesse tornare come prima.
Timore che invero ancora resta e che coinvolge il medium teatrale, la cui fragilità è emersa sotto ogni punto di vista.
Ecco allora il gruppo di lavoro teatrale, rimasto piuttosto stabile negli anni, confrontarsi con questo stimolo che, come molti altri occorsi nei recenti allestimenti, è stato occasione per uno spunto creativo, per una quasi subitanea scelta di tradimento, alla ricerca di altre forme di fedeltà, di connessione verso la forma assoluta del segno artistico originario, fra spinte al confronto con il presente, indagini sulla realtà dello spazio teatrale come corpo vivo e la sua continua messa in discussione.
Abbiamo visto La grande abbuffata in scena al Teatro Fontana di Milano, ma nelle prossime settimane sarà anche a Genova alla Tosse e poi a Roma al Teatro Basilica.
Lo spazio scenico, organizzato dalla sempre originale manifattura di Federico Biancalani, non prevede alla vista alcuna occlusione al momento dell’entrata in sala, per lo spettatore.
Il sipario non è chiuso e il palcoscenico è frequentato da figure femminili di passaggio.
La scena ha un vago sapore freddo e metallico. In primo piano campeggia una Vespa arrugginita, richiamo a un paesaggio vintage come in fondo è il rapporto con il film: un modello di grande bellezza di un tempo ormai lontano.
Dietro, al centro, un tavolo con sedie, sulla sinistra un piano di lavoro da cucina, sulla destra quello che sembra un grande armadio e sul fondale, centrale ma paradossalmente in una posizione che all’inizio non cattura lo sguardo, un piedistallo in cima al quale campeggia un water.
A sinistra sul fondo una superficie di proiezione quadrata. Ed è qui che inizia lo spettacolo, con un breve inserto video: pochi secondi per quella che pare, con ogni evidenza, l’esecuzione di un maiale o qualcosa che gli assomiglia, con un colpo di pistola.
Forse nella realtà era solo la siringa di un veterinario… O forse l’inizio della fabbricazione di decine di salumi che poi la comitiva dei teatranti avrà magari mangiato, per celebrare lo spirito autentico della dissoluzione di cui Ferreri raccontava. È un retroscena di cui non sapremo mai.
Gli attori iniziano quindi uno alla volta a entrare in scena. Non sono i personaggi del film, sono loro stessi, o almeno i personaggi che probabilmente nella vita in qualche forma interpretano, si chiamano l’un l’altro con il proprio nome, quindi non in un rapporto di rimando al drammaturgico filmico.
Questo appare subito abbastanza evidente: il film c’entra e non c’entra, rimane evocato in un foglio di sala, anche questo dal sapore vintage, e da una allure ambientale di cui si manifesteranno via via i connotati: un incontro fra borghesi, colti, un po’ annoiati dalla vita, che si incontrano in un ambiente a suo modo connotato da lussi da réclame, pretesto per dare sfogo a una serie di abiezioni soggettive e collettive.
Gli ingredienti dell’abbuffata non vengono negati. Sinisi fa una scelta opposta a quella di Antonio Latella nel suo recente Chi ha paura di Virginia Woolf, in cui l’alcol che nella drammaturgia scorre a fiumi non arriva mai e anzi, ogni volta che una bottiglia viene evocata, il padrone di casa la toglie di mezzo.
Qui il padrone di casa Sinisi invece sceglie che tutto sia molto presente, che questo senso di devastante e pornografica bulimia, di mancanza di privazione, arrivi molto chiaro. L’allestimento diventa volutamente, nella scelta registica, regno di un barocco didascalico e pop, proiezione esplicita di tutto quello di cui non ci si sazia: il cibo, il sesso, il pour parler inutile e vacuo.
Quattro uomini convengono in questo elegante e freddo ambientino, ben illuminato dal disegno luci di Ivan Dimitri Pilogallo.
Sono vestiti in modo distinto, elegante (i costumi sono di Elisa Zammarchi), parlano di tutto e di niente, commentano le notizie del giorno aprendo a caso il quotidiano e improvvisando commenti sul più e sul meno. Di lì a poco si aprirà anche la botola mentale, che corrisponde in realtà all’armadio da peep show posto alla destra della scena, da cui verranno fuori tre donne, emblematica rappresentazione di un femminile pornografico, più una quarta dal tratto più elegante, che arriverà sul palcoscenico accedendo dalla platea.
L’orgia di cibo, sesso e nulla che segue l’arrivo delle donne occupa parte significativa dello spettacolo, strutturandosi in una serie di sequenze esplicite come quasi mai si vede in Italia a teatro.
La finzione si rivela solo perchè gli attori, dentro una parte che è comunque non reale, mancano della naturale eccitazione che il contesto orgiastico avrebbe normalmente regalato ai partecipanti. Tutto il resto è estremamente esplicito.
Se il paradigma registico è consistito dunque nel mantenere, rispetto al modello di cui si pretendeva il remake, quella sorta di libertà argomentativa e di narrazione, spostando il disagio e i malesseri del tempo di Ferreri ai nostri, in realtà il postulato è declinato in modo coerente.
Lo spettacolo non è un riadattamento in senso drammaturgico se non in pochissimi accenni leggibili in filigrana, ma è un rifacimento che vuole far rivivere l’ambiente psicotico, il tempo del presente con le sue ossessioni, abbuffate (social compresi) e smisurato nulla: un cesso pieno e intasato in cui la società sguazza allegra, che a un certo punto genererà una esplosione che pervaderà la scena, in una immaginaria equivalenza fra palcoscenico e realtà silenziosa del mondo spettatore che Michele Sinisi evoca quasi totalmente priva di orpelli metaforici.
Lo spettacolo di fatto incorpora due sfide, la prima: cosa è possibile fare in scena? Un interrogativo divenuto ambiguo e violento nel tempo in cui i teatri sono stati chiusi mentre fuori la società accelerava un processo di disgregazione e degrado ancora più accentuato di quello degli anni successivi al crollo del pensiero ideologico e l’avvento della tecnocrazia informatica.
D’altronde, rappresentare l’esplicito non è anch’esso una metafora?
Il personaggio interpretato da Ninni Bruschetta a più riprese si interroga proprio su quale sia il ruolo del teatro, della cultura, oggi. Il suo è un personaggio che, nell’operazione registica, sta quasi in uno spazio avulso, incarna un ragionamento sul teatro di chi fa teatro (e forse anche diretto a chi fa teatro), a metà strada fra un de profundis e un sussulto di speranza per uno territorio del pensiero i cui confini oggi appaiono problematici sia come luogo fisico che come luogo immateriale di espressione sociale.
Roger Bernat sostiene che il teatro sia un medium borghese, appannaggio di questa classe sociale. Forse la circostanza che le riflessioni messe da Sinisi e Asselta in bocca a Bruschetta siano interpretate proprio dal personaggio di un borghese annoiato è possibile venga letta come ulteriore sostegno alla tesi: Ninni si ostinerà a un certo punto in modo perverso e inutile a recitare l’Amleto, nonostante alle sue spalle venga giù il teatro, come il militare trombettiere di Hollywood Party, nella esilarante scena in cui pur trafitto da centinaia di colpi continua a suonare.
La seconda sfida non riguarda lo spettacolo ma sicuramente tutto quello che c’è stato prima dello spettacolo stesso, ovvero portare un gruppo di artisti ad aderire a un postulato concettuale come quello di cui lo spettatore trova rappresentazione: portare gli interpreti a una espressione così esplicita ed esposta del proprio corpo, del proprio spazio del vizio, è probabilmente la vera operazione che ha entusiasmato ma anche messo in discussione chi l’ha vissuta e la vive ancora dall’interno.
Si può immaginare l’esperienza travolgente, scombinata, ossessiva delle prove che hanno portato a questo risultato. Chiunque si occupi di teatro di fronte a un esito così esplicito di cui il valido gruppo di attrici e attori (Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Francesca Gabucci, Stefania Medri, Donato Paternoster) si fa generosamente interprete in modo compatto e non mediato, lascia intendere il percorso compiuto durante le prove.
Il teatro di Michele Sinisi oggi è fatto per un verso di esperienze molto fedeli al testo come è stato ad esempio per Tradimenti di Pinter, mentre per l’altro di finti e pretestuosi remake di questo o quel classico, presi come spunto per generare dinamiche destrutturanti, caotico-performative, quasi dionisiache nell’approccio alla creazione, riti sul luogo teatro, in cui gli attori per larga parte della rappresentazione, vengono lasciati liberi di improvvisare, aggrappandosi qui e lì a qualche liana lasciata penzolare da chi cura lo scheletro registico/drammaturgico, allo scopo di creare una sorta di periodico atterraggio e incanalare la direzione dell’improvvisazione dentro binari invero a volte assai poco stretti e ortodossi.
È come se Sinisi in questi anni avesse maturato un interesse al teatro di prosa come fedeltà e al teatro di improvvisazione come liberazione panica di un istinto represso individuale che però, evidentemente, ritiene anche sia un tema di interesse sociale, tanto che si cura di proporne rappresentazione.
Mai come in questo spettacolo i momenti di improvvisazione sono così ampi, nel rapporto fra stimolo originario e libertà di chi recita. La grande abbuffata, pur dedotte le possibili giustificazioni sperimentali connesse alla gestazione durante il periodo pandemico, è il punto di sperimentazione più spinta di Michele Sinisi nella direzione del rapporto fra griglia registica e momento di libera espressione dell’attore dentro la gabbia concettuale voluta dall’artista regista. È come se l’artista cercasse di spingere chi si fa interprete del suo messaggio a farlo talmente da poterlo tradire; come se il regista mettesse in scena una sorta di parafilia guardona, qualcosa di cui in realtà questo allestimento sembra quasi dare esplicita rappresentazione ponendo il pubblico nella stessa posizione (in altri spettacoli invece intercettava intermezzi di altri artisti che irrompevano liberamente nella rappresentazione).
il film di Ferreri fu fischiato a Cannes per il suo contenuto esplicito, volgare e dissacrante, riscuotendo poi un grande successo di pubblico. Era un film volutamente sporco e scorretto, fatto di un’intenzione non mediata.
Sinisi ha fatto la stessa cosa, si è permesso lo stesso lusso, cercando di rimanere sul soggetto. L’unico modo per farlo era forse far sì che in una certa forma questo sguardo impietoso trovasse la forza di rinnovarsi a ogni replica. E l’unico modo era creare una scatola in cui la finzione fosse ridotta al minimo e quel minimo fosse funzionale all’operazione stessa. E queste caratteristiche la creazione le ha.
Può piacere, può non piacere, ma queste sono riflessioni che riguardano lo spettatore e il suo universo sensibile soggettivo, non l’osservazione critica e il tentativo di leggere la struttura di pensiero dentro il più generale (e quantomai complesso) rapporto fra linguaggio teatrale e società, con tutte le sue criticità, che lo spettacolo comunque mette, anche in modo sporco, a nudo.
L’avviso sul foglio di sala è quindi corretto: “Sono presenti scene di nudo integrale”, ma sarebbe banale ridurre il nudo in questione a quello del corpo umano.
E si sa, il nudo turba, sia chi lo interpreta che chi lo guarda.
Anzi, più facilmente il secondo.
LA GRANDE ABBUFFATA
Dall’omonimo film Di Marco Ferreri
Drammaturgia Francesco Maria Asselta, Michele Sinisi
Regia Michele Sinisi
Scenografie Federico Biancalani
Con Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Francesca Gabucci, Stefania Medri, Donato Paternoster
Disegno luci Ivan Dimitri Pilogallo
Sarta di scena Elisa Zammarchi
Aiuto regia Nicolò Valandro
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio di Prato
Ph Luca Del Pia